Tsarina Wilson — Wolf Counsel “Destination Void”
If you want an album that packs a punch from track one, here you go.
The band, consisting of Ralf W. Garcia on Bass/vocals, Reto Crola on drums, Andreas Reinhart on guitars and Ralf Huber on guitars, certainly know how to give you the full package. From great guitar riffs to intense vocals, they have a style of their own and don’t follow the crowd.
Originally a brainchild of the 1990’s, Wolf Counsel finally came to be in 2014 when two veteran musicians merged their enthusiasm and low tuned music and great appreciation of heavy riffs into a new band.
Wolf Counsel have released three full length albums so far; “Vol 1 – Wolf Counsel” (2015), “Ironclad” (2016) and “Age Of Madness / Reign Of Chaos” (2017). All these albums were recorded at Little Creek Studio and produced, mixed and mastered by V. O. Pulver (Poltergeist, GurD, Panzer) and all feature seven songs each that cover the whole scope of classic Doom Metal, showing how this band is developing with each album they release.
The band wrote their fourth album in four months, and this album “Destination Void” again consists of seven tracks, my favourite being ‘Nova’. This may have something to do with the fact that is my mum’s name but, on the other side; I just love the depth to the whole track.
These four guys from Switzerland really have a unique sound. Yes, it’s Doom Metal but it’s much more. It has a sharp edge to it and with such slow and gruff vocals; it has its own unique appeal which is very refreshing. With many Doom bands, you spend a lot of time thinking “what are they saying” but not with Wolf Counsel. They break away from the traditional but in a good way. They have a doom vibe which they can call their own.
‘Destination Void’ the title track is haunting and if there is a horror film director out there who needs a band for their next film credits then it’s these guys. I think it would be a perfect combination, the haunting lyrics followed by some brilliant guitar riffs then back to slow haunting, drunken vocals.
The brilliant artwork on the album cover is just as haunting as the music and sums up the band so well.
On the whole “Destination Void” was a great listen and I look forward to future things from these guys.
8.5/10
Ever Metal Jun 2019
Francesco Scarci — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Uscito originariamente nel 2017, ristampato nel 2018 e finalmente recensito nel 2019, compare sulle pagine del Pozzo dei Dannati, la recensione di 'The Golden Dwarf', opera seconda dei milanesi Satori Junk. Un disco di sette tracce (di cui l'ultima è la cover dei The Doors "Light My Fire") che confermano quanto già precedentemente apprezzato nel debut album dei nostri. La proposta del quartetto italico ci porta dalle parti di uno stoner blues rock doom di stampo settantiano che ammicca per forza di cose, agli Electric Wizard, ma che prova in un qualche modo ad offrire anche una propria originalità, frutto della cospicua personalità in seno alla band, intuibile peraltro già dalla coloratissima cover del disco. Quindi non stupitevi, ascoltando "All Gods Die" di rimanere impressionati di fronte alla bravura dei quattro sapienti musicisti lombardi nello sciorinare un muro di chitarre ultra stratificato. Non sono certo degli sprovveduti e la musica imbastita ne è certamente testimone, soprattutto nella fumosa "Cosmic Prison", in cui si scomodano facilissimi paragoni con i primi Black Sabbath, vera fonte d'ispirazione dei nostri, in compagnia di Cathedral ma anche dei Baroness, due realtà che già comunque traevano ispirazione dai maestri di sempre. La componente synth-effettistica impreziosisce di molto la proposta dei Satori Junk, e li avvicina per certi versi agli psych stoner veronesi Kayleth. Per ciò che concerne i vocalizzi poi, siamo dalle parti di una voce pulita, un po' effettata ma certamente convincente. Andiamo avanti nell'ascolto e per godere del roboante rifferama della brevissima, si fa per dire, “Blood Red Shine”: oltre cinque minuti, un lampo se confrontata con la successiva "Death Dog", dove sono invece più di quindici giri di lancette a dettare legge, in una melmosa sezione ritmica formata da basso e chitarra, due primizie, soprattutto la sei corde e le sue mirabolanti aperture solistiche, da applausi. La voce invece rimane un po' più nelle retrovie, concedendo maggior spazio all'apporto strumentale dei nostri, in cui a mettersi in evidenza c'è ancora un ispiratissimo synth. Tra lugubri rallentamenti, parti robuste più ritmate ed altre decisamente più atmosferiche, un finale ambientale, i quindici minuti sembrano scivolare anche abbastanza velocemente andandosi a collegare direttamente con la song che dà il titolo all'album per un altro sfiancante giro di dieci minuti secchi, in una traccia dal chiaro sapore sabbattiano, quello del primissimo Ozzy per intenderci. L'incedere è dapprima lentissimo, affidato alla voce del frontman, alle keys e ad un drumming ossessivo, poi ecco a subentrare chitarra e basso, in un pezzo ammorbante, ansiogeno e orrorifico. E passiamo alla cover dei The Doors, ultimo atto del cd: che dire, se non che sia praticamente irriconoscibile. Nemmeno nell'introduttivo giro di chitarra si riesce a riconoscere la famosissima melodia di Jim Morrison e soci; direi che l'unico punto di contatto con l'originale rimane il chorus centrale, visto che la voce di Luke Von Fuzz non ricorda nemmeno vagamente quella del suo ben più famoso collega e la parte solistica prende una piega tutta sua con i nostri a dar vita ad una versione funeral stoner di una delle canzoni più famose della storia del rock. Esperimento comunque riuscito e che ancora una volta, sottolinea la spiccata personalità del quartetto milanese. Con qualche correttivo, auspico che il terzo album sia molto meno derivativo di questo 'The Golden Dwarf' dando modo ai Satori Junk di essere ben più originali.
74
The Pit of the Damned Jun 2019
Edoardo Goi — Oro “Djupets kall”
Parlare del debutto discografico del quartetto svedese originario di Örebro, intitolato DJUPETS KALL e pubblicato nel corso di questo 2019 dall'etichetta russa Endless Winter, è allo stesso tempo semplice e complicato; se infatti la musica degli ORO (fondati nel 2014 e composti da Sebastian Andersson, Sebastian Conde, Petter Nilsson e Jhon Stöök) è abbastanza facilmente inseribile nel filone post-sludge generato e istituzionalizzato da band come Neurosis, Cult Of Luna e Isis, è altresì vero che al suo interno si possono riscontrare svariati elementi (dal post-black metal al doom) in grado di renderla più di una mera copia di quanto proposto dai nomi storici del genere.
La band si dichiara ispirata, nel dare forma alla propria visione artistica, dalla maestosa natura che circonda la sua città natale, dominata dalle montagne della catena montuosa Kilsbergen e caratterizzata quindi da estese, impenetrabili foreste e da imponenti rilievi montuosi, e la spiccata evocatività visiva generata dai brani sembrerebbe corroborare senza dubbio questa effermazione.
Basta infatti far partire la opener JÄRTEKEN, con i suoi rimandi ai Neurosis più oscuri e viscerali (quelli di album come Given To The Rising, per capirci) e i suoi fraseggi melodici dilatati e avvolgenti in odore di post-black metal quanto di shoe-gaze, per ritrovarsi immediatamente catapultati in un paesaggio sonoro maestoso quanto tenebroso, guidati da una voce abrasiva che le asperità del cantato in lingua madre (una costante per tutto l'album) rendono ancora più tetra ed evocativa.
Il tempo è lento, per quanto non eccessivamente pachidermico, e la band si dimostra perfettamente consapevole dei propri mezzi, donando al brano un'ottima dinamica, oltre che una presa emotiva indiscutibile, anche grazie all'uso, come da “copione”, di passaggi puliti dal tono fortemente introspettivo in grado di donare alla composizione uno sviluppo più sfaccettato e interessante.
E' un riff soffocante e oppressivo, non lontano dai Celtic Frost di Monotheist (e quindi, giocoforza, dai frangenti più cupi e implacabili dei Triptycon, che di quei Celtic Frost sono la naturale evoluzione), a spalancarci le porte della successiva DOMEN, e ancora una volta non possiamo non rimarcare come l'influenza dei Neurosis, in questo caso a livello di impostazione vocale, sia stata fondamentale per lo sviluppo stilistico della band, tale è la somiglianza, sia timbrica che nel modo di sviluppare le linee vocali, col lavoro svolto da Scott Kelly in seno alla seminale formazione statunitense.
A far da contraltare al senso di schiacciamento dato dal riff portante del brano, la band è abile nell'inserire porzioni più ariose e malinconiche che ricordano, di volta in volta, il black contaminato degli ultimi Enslaved tanto quanto le deviazioni post-black dei Negura Bunget meno folk, il tutto perfettamente amalgamato per dare vita a un brano che colpisce per atmosfera e costruzione sonora, oltre che per impatto emotivo;
aspetto in cui la band si dimostra ancora una volta particolarmente abile, grazie a un lavoro certosino ed efficacissimo dal punto di vista melodico e dinamico.
Sono un basso slabbrato e vagamente distorto e chitarre pulite dai toni quasi psichedelici ad introdurci al brano successivo, intitolato ENAS I SKAM e caratterizzato da un approccio decisamente monolitico e annichilente rispetto al precedente.
Il gioco di “vuoti” e “pieni” è infatti qui molto più spiccato, e consente alla band di raggiungere il suo fine artistico senza dover per forza usare la via dell'annichilimento sensoriale a tutti i costi, dimostrando così di avere parecchie frecce al proprio arco dal punto di vista sia compositivo che espressivo.
Il brano, infatti, si rivela come uno dei più dinamici e riusciti dell'intero lotto proprio grazie alla varietà di soluzioni messa in campo dai nostri, senza che peraltro questo vada mai a intaccare la tensione emotiva costante che fa da trait-d'union fra tutti i pezzi dell'album, il tutto suggellato da un refrain tanto penetrante quanto azzeccato.
E' un atmosfera brumosa e dilatata ad accoglierci nella successiva ENSAMHETEN, composizione dalla durata corposa (si va sopra gli otto minuti, in questo caso) dominata da sentori notturni e introspettivi, nonché spiccatamente malinconici, che non perde questi connotati nemmeno quando la band decide di giocare nuovamente la carta di uno sludge ruvido e opprimente, stemperato qua e la da frangenti più vicini a un più classico heavy-doom magistralmente innervato di sentori post-rock.
Nonostante la durata e le asperità tipiche del genere di riferimento, la composizione scorre fluida e snella, per nulla pesante all'ascolto e, anzi, molto interessante ed emotivamente densa nel suo dipanarsi attraverso le situazioni sonore messe in campo dalla band.
Un brano davvero splendido.
La successiva TUSEN KROPPAR condivide con la precedente composizione, oltre che il minutaggio quasi identico, anche il medesimo sviluppo in crescendo, nonché la varietà di soluzioni elergita dalla band, benché l'atmosfera dei due brani si riveli, per contro, sostanzialmente diversa, con quest'ultima traccia contrassegnata inizialmente da fraseggi non lontani dal folk acustico (nell'accezione “americaneggiante” del termine) e poi irrobustita da bordate elettriche debordanti e impietose, laddove nel precedente brano la band aveva preferito un approccio più atmosferico anche nei frangenti più pesanti.
Non mancano nemmeno qui le porzioni più ariose ed evocative, ma il senso di oppressione e smarrimento generali del brano non ne risulta in alcun modo intaccato.
Si sfiorano gli otto minuti anche con la successiva title track DJUPETS KALL, aperta da fraseggi di chitarra puliti tanto intimistici quanto cupamente psichedelici, ottimamente chiamati ad introdurre un brano dal costrutto linearmente doom, contrassegnato da un riffing molto melodico e penetrante all'altezza della strofa, mentre il successivo sviluppo del pezzo è marchiato a fuoco da esplosioni sludge e aperture post come sempre di grande impatto, per un brano che fa della presa emotiva il suo punto focale, pur senza disdegnare momenti di maggior varietà dinamica, nei quali la band dimostra nuovamente tutta la sua maestria in materia.
L'album si conclude sulle note dell'altrettanto lunga ÖTAG AV GLAS, brano il cui riffing, almeno inizialmente, presenta quasi inedite (per il sound del gruppo) influenze della scuola doom britannica degli anni 90, nonché rimandi ad alcune cose dei conterranei Katatonia, il tutto miscelato col classico modo moderno e obliquo di intendere atmosfera e melodia dei nostri, per una composizione dai risvolti quasi sorprendenti, benché perfettamente inserita all'interno del contesto sonoro dell'album, grazie alla capacità della band di marchiare a fuoco con la propria personalità anche le composizioni più variegate, per influenze espresse e soluzioni adottate.
Il brano risulta così fresco e vibrante all'orecchio dell'ascoltatore, e chiude nel migliore dei modi un album destinato a piacere non solo ai fan del post sludge-doom, ma anche a tutti quegli ascoltatori poco inclini alle barriere fra generi alla ricerca di musica impattante, ammaliante e introspettiva di qualità.
Davvero un ottimo lavoro, da ascoltare con grande attenzione.
Se volete musica per un ascolto distratto, cercate altrove.
85/100
I.V.L. May 2019
Stefano Cavanna — Omination “Followers Of The Apocalypse”
Omination è un progetto solista di matrice funeral death doom che esibisce quale sua indubbia particolarità il fatto d’essere opera di un musicista tunisino, Fedor Kovalevsky.
Se può apparire inconsueta una proposta del genere proveniente da un paese magrebino, non lo è affatto dal punto di vista dell’ortodossia stilistica che mostra, quale unica possibile devianza, una propensione verso ritmiche di matrice black disseminate all’interno di un’opera di un’ora e mezza di durata.
Fedor si era già fatto vivo quest’anno con il demo …Whose Name Is Worthlessness, contenente l’omonima lunghissima traccia che ritroviamo anche in questo primo full length intitolato Followers of the Apocalypse.
Ed è, appunto, l’Apocalisse ad essere il tema dominante di un lavoro sul quale aleggia una religiosità inusuale per questo tipo di sound, così come non lo è invece una visione purificatrice che, personalmente, mi sgomenta più che consolarmi, ma in fondo questo è il frutto dell’insanabile dicotomia tra chi crede in qualcosa e chi no.
L’approccio del musicista tunisino alla materia è comunque dei migliori, grazie ad un’aura minacciosa che aleggia costantemente sul tutto e che, se risente inevitabilmente d’una cospicua durata impedendo una fruizione agevole, d’altra parte esibisce più di un momento di spaventosa intensità, che ha a mio avviso il suo apice in una traccia dal crescendo drammatico come Crossing the Frozen Wasteland, anche se la stessa …Whose Name Is Worthlessness non scherza in tal senso, con il suo magnifico finale in odore di Skepticism.
Il funeral degli Omination non offre moltissimo spazio alla melodia ma, allo stesso, tempo risulta avvolgente ed emotivamente di grande impatto: in tal senso fa parzialmente eccezione la splendida traccia iniziale The Temple of the End of Time, che rende piuttosto manifesto quali siano le nobili fonti di ispirazione per Fedor, che mette nel mirino Esoteric e Mournful Congregation senza approdare neppure troppo lontano da tali obiettivi.
Followers of the Apocalypse sorprende piacevolmente, allargando ancor più la geografia di un genere come il funeral doom che continua a regalare emozioni a chi riesce a guardare al di sopra dello spesso drappo nero che avvolge un’umanità alla sbando.
7.9
Metal In your Eyes May 2018
Tim Salter — Omination “Followers Of The Apocalypse”
Omination is a Tunisian funeral doom metal project created by Fedor Souissi in 2016. In 2018 the project’s debut full-length, Followers of the Apocalypse was released.
Some may be familiar with Fedor Souissi via his work with Vielikan and Severe Agony. But Omination’s musical output differs significantly from both projects, perhaps the only similarity linking them being that they all fall under the extreme metal umbrella.
The album is composed of eight songs, five of them over ten minutes and only one of them under five minutes, that being final song which is a cover of the Ink Spots’ Maybe.
As this is funeral doom, the music is slow and the riffs are very heavy. Keyboards are present much of the time throughout the album, adding a funereal atmosphere to the music, mostly as an organ tone, but occasionally also with a dreamy ambient sound.
The mood of the music varies as well, from sinister and morbid to brooding and gloomy, all the while remaining dark, often all within one song. There are moments of buildup, climax, and calm in the songs, sucking the listener in and taking them on an emotional roller coaster.
Many of the riffs are very memorable, almost catchy even, which is not too often the case with this particular sub-sub-genre of metal. The production is perfect and allows the music to convey the intended feelings. Everything about the album is spot on, as far as funeral doom/doom death goes.
Followers of the Apocalypse is a very good extreme doom metal album. If you are into funeral doom or doom death, you will no doubt dig this.
However, if you are not familiar with doom metal or are impatient, the songs may seem over-long, despite the quality of music. But an album should be judged within the context of its genre, and as far as funeral doom metal goes, this might be the best album of the year, and one of the best doom metal albums of the year as well.
Audio Inferno Dec 2018
thesoundnottheword — Omination “Followers Of The Apocalypse”
Funeral doom, by its very nature, should not be easy to listen to. Music so steeped in misery, in world-ending sorrow and soul-crushing heaviness, should consume the listener, overwhelming you with its desolation until all you can do is immerse yourself within its dark currents, letting its slow tides of despair carry you away. That’s something that one-man act Omination understands, with debut release Followers of the Apocalypse demonstrating why the funeral doom genre is so named. With seven huge, lengthy songs, this album is a monolith in more ways than one, with black metal influences giving its sorrow a vicious edge that keeps the album interesting, never losing momentum no matter how slow or sorrowful it may be.
It should be noted that, when I say Followers of the Apocalypse is huge, I’m not kidding – at over 80 minutes long, the album requires a considerable investment of time to get the most out of it. This is a huge mountain of utter misery, the kind of album that can seem daunting simply due to its length – until, that is, you start to listen to it. Whilst a lot of funeral doom can be slow, repetitive, and – frankly – quite boring, Followers of the Apocalypse never lets itself get bogged down in glacial tempos and monotonous riffs. There is always something happening within the songs to keep them interesting, whether that be organ flourishes, unsettling bass guitar movements, or subtle shifts in the riffs – this is not an album that seeks to produce the doom metal equivalent of ambient music. In that, the influence of the old masters Esoteric is very clear; yet Omination’s music doesn’t sound in thrall to them.
Whilst funeral doom can, at times, come across as self-absorbed and very inward-looking, Followers of the Apocalypse instead feels like an album that’s as interested in the world around it as it is what’s going on in the head and heart of its creator. There is a post-apocalyptic feel to the album that matches the artwork, with a vast sense of scale being put across – the album feels almost cinematic, telling a story of desolation through the scope of its riffs and atmospheres as much as through the actual lyrics. It is a hugely evocative album, with the use of organ in particular adding an overtly religious dimension to the music, as if these songs were sermons for the end-times.
With all this said, the sheer size and scope of the album is both the strength and weakness of Followers of the Apocalypse. Funeral doom undoubtedly works best in extended durations; but when the music is this suffocating, so densely layered with details and atmospheres, it can feel exhausting, and a lot to take in. Whilst initial listens are certainly satisfying, time is certainly required to get the best from this album, to take in all that it offers and appreciate the wider arc it presents. It’s an album that asks a lot of the listener; but it offers so very much in return, that it is well worth the effort. This is a superlative record, that moves between traditional funeral doom glacial paces and more ominous blackened moods with ease, and is all the more remarkable for being the work of one person.
The Sound Not The Word Jul 2018
OccultBlackMetal — Fordomth “I.N.D.N.S.L.E.”
Fordonth are a band from Italy that plays a mixture of black, sludge and funeral doom metal and this is a review of their 2018 album "I.N.D.N.S.L.E" which will be released in November by Endless Winter Records.
Tragic sounding keyboards start off the album which also mixes in with the heavier sections of the music at times before adding in some clean playing while most of the tracks are very long and epic in length along with the riffs also bringing in a great amount of melody and all of the musical instruments sound very powerful.
Vocals bring in a mixture of clean singing, guttural death metal growls and black metal screams while the slower sections of the songs are very heavily rooted in funeral doom metal along with the solos and leads being done in a very melodic style as well as one track also introducing spoken word parts onto the recording and they also give the music more of a poetic atmosphere, all of the music sticks to a slower direction and also captures the heaviness of sludge metal and as the album progresses slide guitars and stringed instruments can also be heard briefly.
Forndonth plays a musical style that takes black, sludge and funeral doom metal and mixes them together to create a sound of their own, the production sounds very professional while the lyrics are a concept album covering based upon eternal damnation, developed under it's satanic perspectives.
In my opinion Forndonth are a very great sounding mixture of black, sludge and funeral doom metal and if you are a fan of those musical genres, you should check out this band. RECOMMENDED TRACKS INCLUDE "Chapter II Abyss Of Hell" and "Chapter V I.N.D.S.L.E".
8
ADifferentShadeOfBlackMetalZine Oct 2018
Giuseppe Picciotto — Fordomth “I.N.D.N.S.L.E.”
‘I.N.D.N.S.L.E.’ acronimo che sta per “In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi”, è come un imbuto che ti “accoglie” sfiorandoti con una carezza ultraterrena per poi, a poco a poco, stritolarti e inghiottirti lungo un percorso che nulla concede alla speranza. E’ come se per espiare le tue colpe sei costretto a scontare la massima pena. Nessun dietro-front una volta imboccata la prima traccia (introdotta da una breve intro). L’iniziale ‘Abyss Of Hell’ è una discesa ripida, un luogo sconosciuto pronto, lì, per sentenziare la tua fine ed infatti il monolite opprimente che segue ‘Eternal Damnation’ di ben 24 minuti è dimostrazione di infinita pena, uno psichedelico doom avvolgente e ossessionante che trasuda desolazione, uno stato d’animo dove solitudine e oscurità si imprimono soprattutto nelle trame chitarristiche e dove una voce lacerante reclama incessantemente: sono minuti che scorrono in preda allo sconvolgimento dell’anima, il finale è solo disperazione pura. Il passo successivo, ‘Interlude’, è musica da camera infernale, inquietante che filtra malasanità occulta. L’epilogo si ha con l’omonima title-track che chiude il cerchio, sentenziando una sorta di perenne dolore, come un ouroboros che morde bramosamente la sua coda. I Fordomth sono una creatura che prende vita da soggetti esperti nel settore della musica estrema nazionale e sanno ben confluire i più disparati generi, infatti, durante l’ascolto di ‘I.N.D.N.S.L.E.’ si avvicendano brani dove a volte è il black metal più funebre e parossistico che prende il sopravvento, altre volte una vena di desolazione psichedelica si fa viva, altre volte ancora certi stati d’agitazione al rallentatore si impossessano di passaggi di puro doom metal. Dopo vari avvicendamenti di line up i Fordmoth si proiettano verso un stile ancora più sludge e pregno di venature black e doom. Ottimo. Distribuisce Endles Winter. Logo e grafica by View From The Coffin.
8
Salad Days Magazine Nov 2018
terraasymmetry — Fordomth “I.N.D.N.S.L.E.”
Disenfranchised by the feigned niceties and depravity of the world around him, the fictional author and main character Dultan was created by Joris-Karl Huysmans as a sort of avatar of himself in ‘Là-bas’ (1891) as a civil servant living a fairly isolated social life. Of the four novels to feature Dultan each would count towards the writer’s last four works before dying of cancer in 1907. Difficult to translate due to his complex and verbose writing style full of snide double-entendre and biting satire Huysmans would ideally be remembered as a sort of Melville among the French decadent period but his prose in ‘Là-bas’ is best recalled for it’s conclusion. The protagonist systematically discovers a secret Satanic society through interest in medieval times and the novel ends with a reading of the black mass which would be quoted directly in its original French for Anton LaVey‘s ‘The Satanic Rituals’ (1972). Named for the rites of the black mass (‘I.N.D.N.S.L.E.’) but themed with Lucifer’s damnation and the resulting effects upon humanity, Sicilian blackened funeral doom metal band Fordomth‘s debut full-length echoes back to the deepest recesses of extreme doom metal in service to the fallen one and those who can relate.
“In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi…” is not simply invocation but also worship, a statement of service. Fordomth section the descent and damnation of Lucifer from heaven unto Hell not as fantasy lore but as spiritual guidance for those of the Satanic faith. Damnation when seen as a reality shared by all is not necessarily a shared ‘virtue’ or a symbol of pride but a common strife faced by those who would fall under the gaze of insidious Christian prosecution. Without lyrics I largely focused on the atmospheric values and instrumentation of ‘I.N.D.N.S.L.E.’ but the concept was no less interesting as an idea. Beyond this path of Satan experienced first hand comes a full hour of funeral doom metal in five parts from hell’s abyss unto damnation, then invocation.
Some extra emphasis upon damnation comes thanks to the epic 25 minute “Chapter III – Eternal Damnation” which shows a shared love for the best of Evoken‘s lead guitar work along with the stark sound and pacing of Longing For Dawn‘s ‘One Lonely Path’. Although the band cites legends Catacombs and Nortt as inspiration their sound invokes a nearly gothic atmosphere without any major focus on the guitar-driven heaviness of bands like Shape of Despair or Mournful Congregation; The result is somewhere in between the romantic excess of Thergothon‘s LP and the jangling ambiance of early Fungoid Stream. Foreboding in its excessive depths but cathartic within finer guitar work, Fordomth‘s arrangements hold together by the grace of the patience of the listener and while the hour is entertaining I do not see any meaning in the inclusion of “Interlude”. The real heft of the album is entirely front-loaded and the final sixteen or so minutes that conclude the album do not add incredible value outside of stringing along the strong atmosphere of the record.
“Chapter II – Abyss of Hell” and the aforementioned “Chapter III – Eternal Damnation” are more or less a filler free record unto themselves and will be the bulk of what carries the average funeral doom metal fan’s interest. These two pieces embody what it is to create heaviness with atmospheric values and ominous compositions without the need to bludgeon the listener with an huge and bulbous guitar tone. Much of the heat felt off of Fordomth in action comes from the vocal performances which range from clean work, to death growls and occasional depressive black metal shrieks. It works as an immersive experience and is ‘over the top’ in just the right way for a truly extreme doom metal record. Though I say this more often the more I engage with experimental doom projects, I do feel like this would be the sort of weird doom monster that a label like Wild Rags would license on tape had it come out in the early-to-mid 1990’s.
Among the best albums released in November and perhaps among the best funeral doom metal related projects of 2018, I can easily recommend Fordomth‘s debut. A compelling enough theme and a very well realized atmospheric extreme doom metal sound might lack gigantic riffs or enough black (or death) metal appeal for some but ultimately I believe this will grow strong within the mind of a funeral doom head as it did in my own experience. For preview I’d suggest either Chapter II for an idea of the record’s overall fidelity and slightly lo-fi sound and Chapter III for a representative sample of Fordomth‘s sound. Ultimately Chapter V, (the title track) finds the band at their best and I hope for more of this style of death/doom going forward.
4.0/5.0
Grizzly Butts Dec 2018
Mike Liassides — Omination “Followers Of The Apocalypse”
I was very much torn over whether to simply tack this on to the recent review of the digital release as an editorial note: not least because there are many albums we don't manage to review at all over the course of a year, far less cover twice. But, in the end, I figured that it would a) be an unreasonably large and subjective note to append to someone else's work and b) quick and easy to put down my own thoughts, given that I'm already quite familiar with the material, since Fedor sent me pre-release samples of it a while back.
In all honesty, I pretty much endorse everything my colleague Chris wrote about it, anyway, so I'm not going to revisit much of the musical and technical detail here, and would strongly suggest you take a look at his detailed analysis via the link above. But I would also add that both context and personal enjoyment are significant, and this two-CD package produced by Endless Winter is a bit of a game-changer for the both.
Most significantly, it takes the somewhat indigestible 90-minute runtime of the download version and breaks it into a much clearer divide. The original plan, in March 2018, was for "a 3 track EP this month. But since the apocalypse is near the project went from 3 tracks to a full length album with more than 60 minutes of Funeral Doom Death Metal". Which EP, I would suggest, would have been the final triptych, occupying the 30-minute CD2 and centred around the lengthy single released in April '...Whose Name Is Worthlessness'. And though it all blends in together well - the dense lyrical images never deviate far from endtimes and apocalypse, and the whole cinematic theme is a cyclical one of birth and death - it nonetheless feels as though the natural break is there, and it's not unreasonable to consider the two discs as a semi-independent 'album plus bonus EP' structure, where they can function as complete in their own right, or be taken one after the other.
That's a good thing, in my book. If there's a very obvious downside to CDs, and, more latterly, streaming, it's that there's significantly less requirement to try and produce a tight and consistent fat-free release that'll fit on to an analogue medium, and considerably more temptation to fill up the available space in a bid to make it look like a good value-for-money purchase. Sadly, all too often, that has come to mean tacking on a bunch of sub-standard demo or cutting-room-floor material, or stretching material out far beyond its actual musical merits. Not that I'm completely anti- either of those, and sometimes they do merit inclusion, even if just to satisfy curiosity...but I'd rather they were kept separate and completely optional from the core thrust and meaning of an album. This two-CD format does actually achieve that: though you might still argue that both sets of tracks could have been a little more tightly-edited without losing the necessary theatrical sweep of the concept, neither disc blatantly overstays their individual welcomes.
Other than that, whilst I get the more-Gothic Neurosis vocal comparison, I'd probably have quoted Danish solo act Sol instead, especially given Omination's sometime baroque organ keyboards underlying them. So, whilst I do rate the 'physical' album a little higher both musically and in the way it's been presented, I'm basically in agreement with Chris that it's a creative and intriguingly promising release which carries some of the typical flaws of a solo project: it has the purity of an unchecked personal version over the frequently more balanced synthesis of a collaboration. I don't even like to guess these days whether drums are programmed or not - been caught out enough times on that one - but they're the weakest part of the soundscape by a long way; fixing that with a full-on expert behind the drumstool would almost certainly do something significant to address the synthesis issue as well. Nonetheless, I think there's value to be had in 'Followers Of The Apocalypse', and if you want to investigate it for yourself, this is definitely the version to go for. Sometimes you get what you pay for - this is one of them.
7,5/10
Doom-metal.com Jan 2019
terraasymmetry — Wolf Counsel “Destination Void”
Though he would maintain a front-facing presence in Swiss death metallers Requiem for nearly a decade, bassist and sometimes vocalist Ralf W. Garcia‘s (ex-Curare, Poltergeist) career from the late 1980’s onward wouldn’t see him as master of his own domain until he’d formed traditional doom metal project Wolf Counsel in 2014. Dodgy as some of the riff transitions were in a few spots ‘Vol. I – Wolf Counsel’ (2015) was a fantastic debut and an impressive one man feat that’d twist the arm of stoner/doom unto the more neo-traditional approach of Reverend Bizarre and The Gates of Slumber. In recruiting his Requiem and Poltergeist band mate, drummer Reto Crola (see also: Punish), along with (then) both guitarists from thrashers Punish Garcia‘s Wolf Counsel would seemingly graduate from solo side-project into a full-fledged touring band. A mild stylistic shift would define the next two releases from the band as ‘Ironclad’ (2016) would introduce a Grand Magus-esque (see: ‘Monument’) style and ‘Age of Madness / Reign of Chaos’ (2017) eased up on the floaty stoner metal influence that’d often draw comparisons to Goatess previous. With this fourth full-length Wolf Counsel appear even more focused, serious even, as their style embraces anthemic dirge that’d praise the increasingly obviate obsidian glory of mankind’s greatest gift: The end, our doom, by our own hand.
There is a dire liquid darkness emanating from Wolf Counsel this time around and it is pleasantly evocative of both modern Scandinavian doom metal as well as the bustling greater boon of doom metal in Germany across the last decade. Though it isn’t as tortured as Lord Vicar‘s ‘Fear No Pain’, the pacing of ‘Destination Void’ finds Garcia and crew holding back on the stoner metal affect in favor of a more serious, dirge-like gloom. Their sound is not unlike Seamount and I say that not solely because Garcia‘s vocals have taken on a bit of Phil Swanson-esque cadence but for the staggered, bluesy moments that rise out of the trudging and occasionally intricate rhythm guitar work. Fans of Count Raven‘s ‘Mammons War’ will appreciate that same level of constancy in the guitar work here, albeit without the wah-pedal abuse, that funnels increasingly heavy doom riffs into more concentrated and complex grooves as the record progresses. It is a very focused and dour traditional doom metal experience that should appreciate in value with successive listens.
The lasting value of a solid ‘genre’ record like ‘Destination Void’ really comes down to style points and how long those referential tones carry the pieces in your mind. Wolf Counsel speak a universally appealing language that all doom fans will connect with but, no single moment of their latest record will transcend the greater body of the sub-genre unto wider interest. So, I love doom metal and from my perspective this is an worthy brick in that castle of doom fandom I’ve been building since the mid-90’s. I’m sure your mileage will vary, fairly high recommendation nonetheless. For preview I’d say definitely press play on “Men of Iron, Men of Smoke” immediately and allow the rest of the second half of ‘Destination Void’ to build up towards the incredible riff-heavy ten minute finale of “Staring Into Oblivion”.
3.75/5.0
Grizzly Butts Feb 2019
Bastardhead — Wolf Counsel “Destination Void”
Wading through the forgettable, pointless drudgery of the modern metal promo scene, something like Wolf Counsel is a nice break. There's nothing about this that screams "AWESOME!!" but it's rather welcome to find a band that at least doesn't outright suck.
That's being somewhat mean, because Switzerland's Wolf Counsel is much better than the incredibly low bar of "not terrible", they're just not particularly innovative. That's not necessarily a bad thing though, because competent music in an established style can be a great listen in almost any circumstance. This here is indeed competent doom metal and I've been enjoying it a good amount. It's no secret that doom isn't my usual stomping ground so forgive me for not having too many points of reference here, but Destination Void is very Sabbathian with an added dose of downtempo majesty. I'd definitely hesitate to call this "epic doom metal" because it doesn't have nearly the amount of hands-to-the-sky splendor blended with crushing riffs of genre heavyweights like Candlemass or Solitude Aeturnus, but there's a very Grand Magus-ish sense of wonder here regardless. It's very organic and earthy, with bone crunching heaviness in the guitar tone and drums that pound like a timpani, and as a result the overall product works very well.
The thing that keeps me from giving this a full-on endorsement is the fact that... well, there just simply aren't that many fantastic riffs to be found. Doom is a genre that lives and dies on riffing prowess, and it's why Tony Iommi is rightfully recognized as the metal deity that he is. A totally average album like Angush's Magna est vis Siugnah last year can still warrant repeat listens based entirely on how fucking rad the main riff of "Blessed Be the Beast" is, and Wolf Counsel never really reaches those heights. They get close at times, for sure. "Staring into Oblivion" has a few really good bangers in there, "Tomorrow Never Knows" is damn stunner, and the title track and "Nazarene" have some great moments in the guitar department as well, but Destination Void definitely rests on its laurels too much and leans way too heavily on simply banging out long, sustained chords without really constructing a meaty riff. They tend to pick up the slack a bit with some excellent 70s style soloing and vocals that are functionally little more than a Phil Swanson impression but still complement the music really well, but the riffing deficiency is pretty notable until the last handful of tracks where they really pick up and start belting you across the back with Sabbathy goodness.
So while the album is definitely imperfect and can't truly be recommended for excellent soloing alone, it's still a nice, meaty slab of doom with enough of the genre's tropes to be a fun listen on occasion. The consistently slow pace keeps the album cohesive but it tends to prevent any real peaks in energy, which would have been welcome without a doubt. If nothing else, check out the last two tracks, that seems to be where the lion's share of great songwriting is hiding, the rest of it I could either take or leave, though admittedly most of the time I'd probably choose to take it despite the wanting riffery.
72%
Lair of the Bastard Feb 2019
Ian Morrissey — Eirð “Rituals”
Germany's Eirð are not a band that I am overly familiar with. Indeed, I had some fun just trying to find things out about this band. The earliest results were that this album was released through Ukrainian label Loneravn Records and that I was to expect "Atmospheric Doom Metal" on this release. It's pretty imperative that Doom Metal in general has an atmosphere though, so I am not entirely sure what that term was supposed to mean!
I have to hold my hands up and say that this release is hard to classify though, at least from a Doom Metal perspective. I'm leaning toward Funeral Doom but it may have a home in Avantgarde too. I've not heard anything quite like it to date. It probably sounds strange to suggest it but this release veers between relaxing and haunting with alarming ease. It's predominantly done well though, which helps, but it's still unusual to encounter.
Vocally, this is yet again a decidedly unique release. You won't even find any until the second track and then they're female vocals being sung, not growled or anything of that nature. The closest I can get to comparing them would be to the female vocals that Totem/Jex Thoth used on 'Totem' although not quite as ranged. They sound a touch religious at times, which I am inclined to believe is the leaning of the release, given the odd choir-esque backing. Somehow the band fuse the sung vocals with the simultaneous crashing of the cymbals in the background really well; it helps to create a brooding yet powerful atmosphere which leaves you on the edge of your seat, awaiting the next movement of this epic journey. Occasionally, there are also some very bizarrely sung male vocals that genuinely sound like noises E.T. would make if he could sing; I didn't like that.
"Epic journey" really is the correct term to describe the opus that is the album "Rituals" and yet it's not a term I tend to associate with Doom Metal in general. The earlier tracks are majestic and soaring. You feel like you're part of a fascinating story whilst listening to the beginning of this composition. The band's ability to effortlessly shift the intensity levels affords them complete command of the music here, and I never had any impression of it being otherwise, making this a very measured musical adventure. Having said that, I do feel like Eirð have tried to take this release on a different journey on each track and the danger with that is if they get something wrong, it could tarnish people's experience of the album. Unfortunately, I feel like that's precisely what happened on the final track.
On 'Rituals III - Futhark', I started to get annoyed. I had really enjoyed the preceding tracks because it felt like they were prologues for a magnificent finale and they were excellent in that respect. However, on this track, the band has seemingly tried to incorporate Electronic elements and it doesn't work at all. I've genuinely sat here for a while now, trying to work out if it's intentional or whether the track itself is corrupted because it sounds awful and much to my dismay, I think it's intentional, based on the fact that there's a gradual fade toward the end. Either the band wanted to create a song that sounds like it was recorded under the sea or it's corrupted because Electronic music completely nullifies every other musical aspect of this track. I like Electronic music but it doesn't work here at all - it's just annoying. It's a shame because from what I can hear, the song itself sounds good but the Electronic side of things completely ruins it.
Whilst on the topic of annoyances - as this review is based upon a download, I'm afraid I have absolutely no idea as to what it's actually about, which is a shame - I like to see what has inspired releases. There are religious overtones to this music that intrigues me as it's not a particularly common element to find in this genre but I cannot find any further information on this front, sadly. I also don't understand what the 30 seconds of silence at the end of the second track was about; it didn't really seem to fit the music. My main issue is still the third track, though - I'd give this release a higher rating if it wasn't for that atrocity.
This is not your standard Doom release. This Funeral Doom/Avantgarde bonanza starts off majestic and soaring rather than dark and depressive and cumulates in eclectic Electronic frustration. It'll still take you on one hell of a journey, however - that much cannot be denied. I think the majority of Funeral Doom/Avantgarde fans will appreciate the first couple of atmospheric tracks here but I'd be surprised if anybody liked the ending because it's overwhelmingly annoying. Give the album a whirl, though - there are unique elements on 'Rituals' that are worth experiencing and I am curious to see what other people's interpretations of this release are. 6,5/10
Doom-metal.com Apr 2018
Slawek Migacz — Wolf Counsel “Destination Void”
Swiss Wolf Counsel is a doom metal band from whom the fans of the genre can quickly expect new music, almost every year. As time is passing by, this album proves their maturity as composers. This band always embraces everything that is best in them, which is a cause why they always make solid albums. One of the factor that validates their music reliability are vocals in their songs, which are fully to enjoy. Proper, clean singing is in prize, but also, I am fond of hearing epic vocals of their singer, who is able to use large scales for his vocal chords. Ralf`s vocal equalities are not as wide as Ozzy`s or Messiah Marcolin for sure, but I positively receive his vocal variations on the whole album. Especially in songs Nazarene, Nova, in which magick atmosphere is raised by refrains, on top of heavy and doomy guitar arrangements. Mother Of All Plagues is a bit more lively and dynamic song in mid-tempo... And as it is in previous songs, this one is also sprinkled with interesting guitar solos, which happen in further tracks too. Men Of Iron Men Of Smoke has started to interest me just after third minute has started off, here, they sound a bit like earlier Paradise Lost (not death metal era for sure). S/T song is both slow and faster but never loses its heaviness and mysticism and they just sound very good on this record. The album was made with a sense of the band` s need, which is a traditional sounding doom metal (Solitude, Candlemass etc) that has everything to do with heavy metal and rather not much with deathy-doom metal. And on these bases of classic sound, the band continues with the next song, entitled Tomorrow Never Knows. It`s possibly the most diverse song on the album with groove and many times changed music structures. The last track is the longest one with kind of sorrow-some, melodic inclinations, potentially hard rock solos and they put more accents on harder expression of some vocals. It`s cold and very doom metal song, which is what Wolf Counsel does, and they are hauntingly good at it!
Monarch Magazine Feb 2019
Roolf — Wolf Counsel “Destination Void”
Gar nicht langsam im Veröffentlichen von Alben, im Gegensatz zur dargebotenen Musik, sind Wolf Counsel, und so ist mit "Destination Void" bereits der fünfte Streich vollbracht. Mit feinstem Doom, der klassischer nicht sein könnte, verwöhnen Wolf Counsel unsere Ohren. Wie seine Vorgänger auch, wurde "Destination Void" im Little Creek Studio unter der Fittiche von V.O.Pulver aufgenommen und kann deshalb auch produktionstechnisch glänzen. Das Doom-Hörspiel beginnt mit "Nazarene", und vom ersten Ton an, wird klassischer Doom geboten, der aber nicht allzu langsam ist, sondern mit moderatem Tempo abdampft. Somit ist der Einstieg schon mal geglückt. Mit "Nova" wird der Wind aus den Segeln genommen, und eigentlich müsste dieser Song "Lava" heissen, so zähflüssig kommt er aus den Boxen gekrochen. Die Kadenz wird erhöht und das Resultat nennt sich "Mother Of The Plagues"! Dieser Song ist näher an der NWoBH dran und die Doom-Spuren sind nur schwach zu vernehmen! Was speziell erwähnt werden muss, ist die hervorragende Gitarrenarbeit und das knackige Drumming! Der Abwechslung zuliebe gibt es mit "Men Of Iron Men Of Smoke" einen ganz ruhigen Song zu hören. Interessant, auch diese Seite von Wolf Counsel hat ihren Reiz! Kirchenorgeln und Doom passen sehr gut zusammen, deshalb bilden die Kirchenorgeln auf "Destination Void" das Intro. Was nachher folgt, ist eine Demonstration von genial gespieltem und flottem Doom. Natürlich hat der Song auch schleppende Passagen feil zu bieten, also eigentlich das Doom-Gesamtpaket! Herrlich sägend und im NWoBH-Modus fräst sich "Tomorrow Never Knows" in die Gehörgänge. Gespickt mit ganz ruhigen Passagen, ist dieser Song sehr abwechslungsreich und ein weiteres Highlight auf diesem Album. Die letzten zehn Minuten werden von "Staring Into Oblivion" bestens genutzt, um ein ganz starkes Album mit einem würdigen Schluss zu versehen. Dieser Song pendelt sich im zähflüssigen Bereich ein und zeigt Wolf Counsel abermals von ihrer besten Seite! An alle Doomer unter euch: Unbedingt reinhören oder noch besser gleich kaufen! Ein absolut geniales Doom-Album, das auch den internationalen Vergleich nicht scheuen muss!
9,2/10
Metal Factory Feb 2019
EM ZETT — Wolf Counsel “Destination Void”
Die Schweizer an sich sind ja eher bekannt als ruhige und entspannte Zeitgenossen. So verwundert es nicht, daß WOLF COUNSEL aus dem mondänen Zürich dem Doom huldigen. Und genau das zelebrieren sie auf ihrem vierten Album „Destination Void“ in wirklich bemerkenswerter Art und Weise.
Was mich von Beginn an vereinnahmt, ist das prägnante und starke Riffing. Es trägt die Songs trotz aller Gebremstheit und vermittelt ein gehöriges Maß Heaviness. Dazu kredenzt uns die Band kleine melodische Feinheiten bis hin zu mehrfachen Glockenschlägen als dramaturgische Einsprengsel.
Zugegebener Maßen hatte ich beim ersten Durchlauf so meine Probleme mit dem Gesang, der bei dem Einen oder Anderen von euch sicher differenziert aufgenommen werden könnte. Aber nach einer gewissen Gewöhnung stellte ich dann sogar Parallelen zu Ozzy Osbournes Frühzeiten mit BLACK SABBATH fest. Das WOLF COUNSEL sowohl im Fahrwasser dieser Herrschaften als auch von Bands, wie CATHEDRAL, TROUBLE als auch CANDLEMASS stehen, ist hörbar, aber trotzdem auch authentisch.
Fazit: Den Doom haben die Schweizer ausnahmsweise mal nicht erfunden, aber WOLF COUNSEL sind ein bemerkenswerter Vertreter dieses Genres.
8/10
Zephyr's Odem Feb 2019
Gareth Allen — Oro “Djupets kall”
The debut album by Sweden’s ORO is an atmospheric and complex masterpiece of metal, creating a stunning set of musical soundscapes. Embrace its unsettling music, and don’t let this album pass you by!
ORO from Örebro in Sweden, have produced an intriguing debut album, that creates a set of imaginative musical soundscapes, that draw on black and post metal, and are underpinned by some storming sludge/doom metal rhythmic patterns. Örebro, where the album was recorded, sits in the shadow of the Kilsbergen mountains, which are covered in deep forestation, and the power and atmosphere of such a landscape, imbues the music that you will discover here. The band’s name means anxiety and unrest, and this is a truly unsettling album, that demands your attention and emotional involvement.
Opening piece Jartecken, clocks in at over 8 minutes, and the introductory guitar chords reverberate, as if you were hearing them live, coming out of ceiling high guitar stacks. As the song begins in earnest, the jagged rhythms and swirling winds of Petter Nilsson and Sebastian Andersson’s symphonic guitars, completely envelops your listening experience. The song then dynamically shifts pace, into a slowed down striking doom metal section, driven by Sebastian Conde’s snapping bass, and John Stöök’s staccato drums, with sweet melodic guitar lines succeeded by crushing riffs, full of heavy sustain. Throughout, Petter’s death growl vocals, seem to provide a high-pitched treatise, on despair, loss and the never-ending search for hope.
Enas I Skam, begins with a shimmering intimate beauty, where the understated almost spoken vocal, weaves through some evocative and subtly building chord sequences, accompanied by some incredible low rumbling bass. Heavier black metal styled musical themes puncture the intimacy, creating a complex musical piece, that evokes an emotional journey, full of unease and foreboding, but with moments of relief and calm.
This is demanding serious music, almost classical in its compositional layers, and emotional passion. It is another release this year, that speaks to the musical experimentation and ambition that metal is reaching for and embracing.
Tusen Kroppar means ‘Thousand Bodies’, and has another gorgeous intro, with a repeating guitar figure and jazz type bass line, that simply light up the listener’s sensory pathways. We are then into classic sludge metal intensity, with more edgy atmospheric musical embellishes. Petter’s vocals seem to scream with the pain of lives lost in senseless conflict, and all its repercussions. Ogat Av Glas closes out the album, with a traditional folk like ambience, threaded throughout its doom grooves. It features a stellar performance by drummer John Stöök, who uses his kit to drive the song rhythmically, add new musical colours, and intensify melody.
This album will require repeated listens to fully appreciate its expansive musical palette, and we can only hope ORO tour here soon, as live it will be without doubt, a total sensory experience.
Louder Than War Mar 2019
Gareth Allen — Oro (interview)
Louder Than War recently reviewed Swedish metal band ORO’s debut album Djupets Kall, describing it as “an atmospheric and complex masterpiece of metal”. To explore the elements that went into creating the album, and learn more about the band that created such evocative and unsettling music, Gareth Allen put some questions for Louder Than War to guitarist and vocalist Petter Nilsson. During the interview Petter indicated that the band would love to play the UK if someone will book them. If any promoter is reading this, please consider putting this great band in front of audiences in the UK.
Louder Than War (LTW): In our review of Djupets Kall, we referred to the album’s imaginative musical soundscapes, and the power and atmosphere of the surrounding landscape where it was recorded. What were for you the experiences in the moment, that impacted on the recording sessions, and we hear in the music on the album?
Petter Nilsson: For me there’s not a single moment that has influenced the sound of the album, but of course layers of experiences, from real life and from imagination. When I think about the sound that we wanted to create with the songs and the album, I envision the blue shimmering mountains and deep forests that surround us. Our music is heavy and primal, as the massive rock, and yet fair and gentle as the wind through the trees. Whenever I walk through these woods, I get a sense of the thundering stillness and the untamed power that it holds. It’s an amazing sensation.
LTW: With each song on the album, there seem to be multiple musical layers, both instrumentally and vocally. How did the compositional process work?
Petter: The songs generally start with me sitting at home with my guitar. I record ideas and riffs on my phone that I then present to the other guys in our rehearsal room. We then start to add all the layers, bass, drums, melody, etc. to the parts, and piece them together. We try out different ways to approach the songs and everybody gets to have a say in the creative process. If someone has an idea for a drumbeat or a new way to arrange the song, we try it out and see how it feels. Then slowly but surely the songs take shape. The vocal parts are the last thing that we add. I sit at home, listening to rough recordings of the songs on my headphones and write down the lyrics. Even though I generally have a rough idea on how I want the vocals to be, it’s not until that moment when I’m alone with just my thoughts and the music, that it really takes form.
LTW: On the song Tusen Kroppar from the album, your vocals seem to almost scream with pain. What are the experiences/observations, the song is seeking to express?
Petter: I wrote the acoustic intro for this song many years ago and recorded it on my phone. And when I listened to it afterwards, I heard my newborn daughter crying in the background, which I hadn’t noticed during the recording. Her crying and the acoustic guitar made it sound creepy as hell, and I knew we had to use this somehow. The title means “thousand bodies” and I wrote the lyrics during the worst refugee catastrophe around the Mediterranean Sea. Seeing all those people risking their lives and the bodies of dead children floating ashore on the Greek beaches affected me deeply.
LTW: The artwork for the Djupets Kall album is very evocative, what was the concept behind it?
Petter: As a band we’ve always dwelled in the murky, gloomy aspects of what it means to be alive, and for our debut album we wanted to capture the feeling of being drawn to the deepest, darkest places, both mentally and physically. Hence the album title “Djupets kall” (The call from the deep). We found this very talented illustrator via facebook called Jonathan Bark, and we started to discuss the artwork with him. We went through tons of existing artworks of albums and bands we love, to find the right look and feel that we wanted for our cover. We knew from the start that we wanted something that looked hand drawn and painted, not too photo realistic and digital. And Jonathan was the perfect guy to deliver that! He made about a hundred different sketches for us to consider and after a lot of work and tweaks perfection was achieved.
I’m very happy about how it turned out. The idea is this humanoid creature who has been drawn to a cave deep inside the earth, far from sunlight. Not against his will, but not entirely voluntary either. The impenetrable darkness calls upon him and demands his submission, and as he surrenders to its will, staring into the black stream, it consumes and dissolves him with a bitter sweet satisfaction. That is the feeling we want to awaken in the innermost essence of the listener.
LTW: Could you share something about the musical background of each band member?
Petter: Well, my musical background is a bit diverse in the metal genre. I grew up listening to Guns N’ Roses and Metallica, moving on to Slayer and Pantera. For a long time, I was into thrash and death metal, playing guitar in the extreme thrash band Terrorama. But I’ve also really enjoyed listening to progressive stuff like Dream Theater, and other bands like that.
It’s hard for me to answer for the other guys but I’ll give it a try. John Stöök (drums) has a background as the drummer of the stoner rock band called Maskin. But he is also really into modern thrash and progressive stuff like Lamb of God and Periphery. Sebastian Conde (bass) has a background listening to black metal like Mayhem and Marduk, and also playing crust/grind punk. Sebastian Andersson (guitar) has a background in the skate punk and hardcore scene. He’s been playing in a lot of different bands within the hardcore and grindcore genre.
LTW: What does metal music mean to you as a band?
Petter: I think metal music means everything for us as a band (and for me personally). Metal music is the essence that connects us, without it we wouldn’t exist. It’s like asking what oxygen mean to humans.
LTW: Do you have any plans to play the music live and might that include concerts in the UK?
Petter: So far, the only gig we have planned is the release party for the album, taking place in our hometown. After that we’ll see what happens. We’d love to come to the UK and play for sure. If you book us we will come, haha!
LTW: Thank you for your time, it’s really appreciated.
Petter: Thank you, no problem!
Louder Than War Apr 2019
Leon — Oro “Djupets kall”
Post-metal (or atmospheric sludge or however you want to call it) is in a weird place nowadays. The style had its golden age starting in the second half of the previous decade, releasing dozens of high-quality albums every year, many which would eventually be rightfully enshrined as metal classics. The biggest and most influential names, such as Cult of Luna, Isis, Rosetta and even the grandfathers Neurosis, released some of their best material back then. It was also critically acclaimed as the next step in metal’s evolution, some even lauding it as metal’s maturation into a serious genre. Some even showcased silly and pretentious obsession with it’s “intellectual superiority” (think Isis frontman’s Aaron Turners statement that it is “thinking man’s metal” taken to the extreme) And of course, there ensued various accusations of hipster shenanigans. It was an interesting and musically very rewarding time.
But by mid-10’s, the enthusiasm for post-metal and its productivity had all but fizzled out. It wasn’t that less albums were being released. Hell, there was probably more of them than ever, but few were as good or at least as interesting than what preceded them. At the same time, the big players of the genre have either broken up (Isis), switched to a glacial releasing schedule (Cult of Luna, Neurosis) or opted for eclectic experimentation (Rosetta). The critical acclaim and public interest slowly waned. Post-metal went back deep underground, with fans such as me being left to feed on a drip of the few quality releases each year by established names or scrounge among the heap of obscure bands trying to find one that isn’t an uninspired attempt to relive the old days. Perhaps we were spoiled because the classics were some truly incredible musical achievements that shine to this day. Perhaps it was their innovativeness, uniqueness and intricacy that gave a really hard time to any aspiring copycats.
In this context, let’s discuss ORO’s debut, “Djupets Kall”. It might seem unfair to first throw all this historical burden on the band and then review it, but I claim there’s good reason for this. It’s not just ORO being labelled post-metal, but their very sound that calls upon the whole tradition. In this sense, I might even call “Djupets Kall” sort of old-school. If this album were released in say 2008, no one would be the wiser. It’s got all the components of a traditional post-metal record: rough vocals, huge sludgy riffs used both as a method to heaviness and towards crafting soundscapes, and finally intricately crafted atmospheric bits seamlessly woven with the heavy bits. And yes, the same might be said of any late post-metal album that tried to copy the old masters and ended up being boring and uninspired. But I assure you ORO is nothing like that.
There are many bands that are experts at perfectly replicating some previously established style, offering records that don’t have an ounce of originality, but are still enjoyable due to the quality of the execution. ORO can in a way be put into this category, but I believe they take it a step further. And it is a crucial step – they establish their own identity. Sure, it still isn’t fully developed, but it is certainly far beyond the point where the music is indistinguishable from other similar attempts. Post-metal has always been a highly expressive style. It was about evoking peculiar emotions, communicating a specific feeling and atmosphere with the entrancing power of heaviness. An attentive listener will notice that ORO has something to say here that isn’t just “yeah we play atmospheric sludge real good”. I can’t really put the narrative in the words, seeing as all the lyrics are in Swedish, a language I am not at all familiar with. But I think this only shows the success of “Djupets Kall” – it can produce its effect on music alone. ORO’s songwriting prowess provides this – they’re apt at mobilizing many different techniques and present them coherently, for instance seamlessly combining the heavy and atmospheric parts, without just doing loud-calm-loud using dime-a-dozen sludge riffs and cheap post-rock bits. The core feeling shines through without being burdened by amateur songwriting that has a hard time expressing itself.
The atmosphere is noticeably darker that what you’d find on say a Cult of Luna album. Hell, the album’s name is “deep cold” in English. But this darkness isn’t achieved by incessant pummelling as some death/doom attempt it (with success, mind you). ORO succeed in what any real post-metal strives for – a complex emotional soundscape. It isn’t just “yeah stuff is dark and I feel bad”, it’s a multiplicity of unutterable sentiments that pervade in the gloomy predicament the listener finds themselves in. The nocturnal ambiance of “Djupets Kall” is the soundtrack of deep introspection.
ORO, at least right now, probably won’t save the stagnant style that is post-metal. Nevertheless, it needs be said that it is a step in the right direction. “Djupets Kall” is here to show you how it’s done. It still isn’t exactly original and weighs most of its success on formulas already established, but it’s certainly not a dead end. I’m convinced ORO can further build on this base and be one of those bands whose albums frustrated post-metal fans will impatiently await to get their fix of some quality stuff.
7,5
Metal Utopia Feb 2019
Alain — Wolf Counsel “Destination Void”
Autant l'avouer d'entrée de jeu, j'ai un faible pour ce groupe suisse adepte du Doom Metal ; les chroniques largement positives de leurs trois premiers albums sont présentes sur ce site pour en témoigner. Non seulement l'écoute répétée du quatrième opus, Destination Void, ne risque pas de faire baisser la cote du groupe mais elle la renforce. Non pas que le groupe ait franchi un cap particulier mais, l'expérience aidant, cet album fait montre d'une maturité appréciable.
Plus que jamais, WOLF COUNSEL fait figure de trait d'union rêvé, de synthèse aboutie entre CANDLEMASS et de COUNT RAVEN, soit entre la quintessence du Doom lyrique et un entre-deux entre celui-ci et le Doom traditionnel à la SAINT VITUS ou THE OBSESSED. Du premier, WOLF COUNSEL a tiré l'enseignement ultime des rythmiques pesantes et inexorables, au sein desquelles riffs tendus et section rythmique conjuguent leurs efforts pour tracter péniblement ce qui semble être ni plus ni moins que le Destin sinistre de notre humanité. Du second, Ralf W. GARCIA, bassiste mais aussi chanteur de WOLF COUNSEL, a retenu (du moins me semble-t-il) un timbre un brin nasillard, lentement et distinctement articulé, osbournien dans l'âme.
Servies par un son totalement limpide et puissant, les compositions de Destination Void s'avèrent riches en point de repères rythmiques et mélodiques (mélancoliques, les mélodies, cela va sans dire), en riffs granitiques gonflés par des lignes de basse rondes et épaisses, en solos de guitare mélodiquement sensés, en passages plus atmosphériques que lourds, en variations de tempos et de rythmes. Sans compter des arrangements (glas récurrent, dissonances ésotériques en introduction de l'ultime titre Staring Into Oblivion) qui renforcent l'atmosphère lugubre de l'ensemble.
Au moment où CANDLEMASS sort un nouvel album et où COUNT RAVEN en enregistre un nouveau, WOLF COUNSEL montre qu'il ne démérite pas, loin s'en faut.
18/20
Métal Intégral Feb 2019
Josh — Oro “Djupets kall”
Neurosis has a penchant for capturing the mind with bulletproof doom, Inter Arma has a penchant for capturing the flair for heaviness, and on Djupets Kall, Oro capture all this in one fell swoop. Not saying they’re better, just that their sludgy and doomy approach here has the same ‘underworld’ and ‘out of body’ feel to it. The highs of “Domen” meet the subterranean lows of “Tusen Kroppar” The title track can be summed up in one word; majestic and it’s here that Oro make their true mark after the unforgiving onslaught of purposefully draining (but good) tracks ahead of it, it’s heavy no doubt but strangely uplifting in the same way that Neurosis can raise the soul after burying it in coffin dust. It’s a rare thing that a band can successfully acknowledge their influences without being a direct copy but Oro do it with ease here and are one of the most electrifying bands to take on the whole doom and sludge thing in quite some time. If electrifying, doom, and sludge don’t fit your vocabulary then you haven’t heard Oro, it’s as simple as that.
Nine Circles Apr 2019
The Key Keeper — Oro “Djupets kall”
From the Swedish land come ORO. A band that started back in 2014 and “Djupets Kall” is the debut album and from what I found the first release too. ORO that means “preoccupation” in English if the translator did it correctly. ORO is a band that moves inside the Sludge and post-rock or post-metal. They don’t bring anything new in the mention genres but the way they do and the atmosphere created in the songs, that’s what got my attention. The cadence in the songs, the sound of the guitars with the details, with some melancholic melody behind the riffs and the voice, very good. I can say that I was a lucky bastard when I got this promo and this way, I had the pleasure to listen to this amazing debut album. Well done.
BlessedAltarZine Apr 2019
Edmund Morton — Wolf Counsel “Destination Void”
Being Swiss doesn’t get you very much except higher taxes and better access to dairy produce, so it’s a novelty to see Wolf Counsel doing their bit alongside Roger Federer to change the reputation of the country. A steady output since forming in 2014 has occupied much of the quartet’s time, though hasn’t stopped the death metal outfit Punish sharing three of the current line-up, as well as thrashers Poltergeist featuring vocalist Ralf Winzer Garcia and drummer Reto Crola among their resurrected ensemble. Despite the speed of Wolf Counsel’s output, the music tends to stay strong and steady, drawing on the rich tradition of classic doom metal.
This fourth full-length comes on much like the previous one, seven long songs filling 48 minutes with downbeat atmospheres and solemn themes, never challenging the preconceptions of the doom genre while ensuring that familiar listeners remain attentive. Due to different features of the sound, Destination Void may call up comparisons to Seamount (or whatever Phil Swanson is doing these days), Argus, Cathedral, and Count Raven to name but a few. The resemblance of Garcia’s vocals to Swanson’s occurs frequently and sounds uncanny at times, turning some heavily percussive doom riffs a shade drearier with the slow moan of the singer. One may term that trope a lack of expression from one quarter, and indeed the music would have improved from being given another dimension vocally, yet that desperate monotone certainly allows charisma to seep into the achingly sluggish parts of the title track and the quiet beginning of “Men of Iron Men of Smoke”. The clearest glimmer of a Cathedral inspiration can also be found in the organ introduction and lead-heavy riff of “Destination Void”, which bends the song inwards like lava flowing across stained glass.
Concerning standout features that Wolf Counsel can boast, the most attractive must surely be the fluency and creativity of the lead guitars, which turn several long solos into mazy runs of extended improvisation in the same manner as Argus at their best. That the highlights of epic closer “Staring into Oblivion” and “Nova” come at the moments when Garcia stops singing the longest doesn’t trouble the album per se; it only means that the lead guitars channel an attention to detail that runs inconsistently through the other parts of the songs. Crucially, the aforementioned closer captures everything that Wolf Counsel attempt across the album, not from the accumulation of all its parts but rather from the synchronicity of some hooky dirge-like riffing and the steady baritone vocals, mowing along on a grimly destructive Forest of Equilibrium trip until the listener becomes beaten down by the sheer weight. Total victory comes not in the other cuts. Simply put, the balance of killer ideas and savory yet ultimately just decent parts swings in the direction of the latter.
Wolf Counsel thus push all the right buttons for fans of heavyweight and classic doom metal to sit up and take notice; however, they don’t push them often enough or in the right order to spell out success. Only fools would complain about the intelligence of Crola’s performance on the skins or the natural, thick production that gets the bass to grunt out of “Tomorrow Never Knows” like a rhino with a hangover. Then again, even those same fools would notice that nothing particular jumps out on cuts like “Mother of All Plagues” and that a few songs contain quite noticeable periods of downtime that cannot always translate into renewed momentum and fresh ideas. As a major cause, the pacing throughout Destination Void hinders songs from becoming enjoyably unpredictable, since a low medium amble sets the tone for the majority of the time, occasional crushing slowness not exactly relieving the burden of extended listening.
Now that doom metal has blossomed into more than just a narrow circle of bands, the standards by which each album is judged will necessarily rise. That higher standard will not serve to leave Wolf Counsel out in the cold; however, the merits shown on Destination Void prove insufficient to put their name among the most well-known bands in the genre. If the Swiss group can capitalize on their lead guitar creativity, regularize their occasional rhythmic diversity, and bring the vocals into line with their sound more often, a great deal more might be written about them in the future.
7,5
The Metal Observer Mar 2019
ImperativePR — Oro “Djupets kall”
From the Swedish city of Örebro, surrounded by forests, in the shadows of the Kilsbergen mountains come ORO; armed with a debut album that will sweep you down into the depths of darkness and lay your heart bare to the cold anguish of memory. Constructed from vast riffs and aching intimacy, the songs that make up Djupets Kall offer a staggering listening experience. Nothing can prepare you for the raw, visceral emotion that screams out from these desperate post/sludge metal creations.
Since the four members of ORO were drawn together in 2014, united by a vision of music that would combine crushing heaviness with an unflinching honesty of expression, the band has recorded four demos; each one a stepping stone along the way to the ultimate goal of Djupets Kall. The band decided, right at the start, that they would write always in their native Swedish, allowing them to speak with untarnished integrity and retain the purity of the emotions they wished to express. This choice simply adds to the grim beauty of their agonised outpourings – the terrifying intensity of each song reaching beyond the boundaries of language.
On March 1st label Endless Winter will unleash the magnificence of ORO’s Djupets Kall onto an unsuspecting world and all who hear it will be left stunned by the experience. Whole worlds of complex emotion lie waiting to be discovered within the cavernous darkness of these frighteningly intense songs. ORO will take you to dark places, unravel your nerves and expose your pain - and nothing could be more life affirming and rewarding.
ImperativePR Jan 2019
Paula Fazlich — Oro “Djupets kall”
В дълбините , далеч от светлината, забравени души бродят през безкрайни тунели и сменящи се пасажи от подземния свят, дамгосани завинаги да търсят своето спасение. Тоталният мрак замъглява дори и най-крехкия опит на изтормозените им очи да прогледнат, рисувайки миражи от изминали терзания и разбити мечти, нежно и злокобно отварящи стари, заздравяли и тепърва изсъхващи рани, позволявайки им да разпръснат кръвта си навсякъде по пътя на необозримото .
Страданието от самотата , задушаващият мрак, осакатяващият душата страх, колосалното величие на Долния свят… всички тези ужасяващи, но по своему красиви неща, са хванати в музиката на ORO, във всеки звук, част от дебютния им албум Djupets Kall.
В превод, ORO означава тревожност/безпокойство и тези емоции текат по време на целия албум като нестихваща тъмна материя, като между величествените рифове, агонизиращ дуум и тежък слъдж, проблясват пасажи на възвишена красота.
В песни като атмосферичната ‘Järtecken‘ цели светове от комолексни емоции се разкриват пред теб, безбройни нюанси на радост и отчаяние едновременно, мъждукащи като слънчева светлина през стъкло върху каменния под на тих параклис.
Още с интрото става ясно, че предстои нещо дълбоко , атмосферично и добре изпипано.
Встъпителната песен , Järtecken, е истинско предназнаменование за цялостното усещане на албума – стаена болка и мощ, съпроводени с много красота.
В Domen , втората песен от албума, вече можем да навлезем в същинската атмосфера на Djupets Kall.
Дълбочината на песента се подкрепя стремително от харш вокалите на Petter Nilsson, а интересният слъдж инструментал придава свежест на цялата композиция.
Четвъртата песен , Ensamheten , според мен е истинското бижу на Djupets Kall – красив, отнасящ инструментал и не един, а цели два стила на пеене на вокала, динамична композиция и отлични мостове от един темп към друг.
В Tusen kroppar можем да се насладим на отличен близо триминутен инструментал още в самото начало и отново, изразителни вокали, следващи безупречно атмосферата на албума.
Djupets Kall , предпоследната песен, представлява красив ритуал, който се извисява бавно над цялата композиция и отваря изцяло вратата към света на ORO .
След нея, като за финал, Ögat av glas ни изпровожда с мощ и красиво послание, на мен лично навяващо ми спомени за неповторимото творчество на Лъвкрафт:
Bortom det okändas horisont.
En sfärisk prisma av ljus.
Visar upp världens förräderi.
Allt levande är dött.
Allt dött är levande.
Албуми като този са една от причините тежката музика да продължава да докосва сърцата на онези, които се нуждаят и от друго, освен от представление и мърчандайз.
The Void May 2019
Francesco Scarci — Colossus Morose “Seclusion”
Continua il nostro tragico percorso lungo i deprimenti lidi del funeral doom. Quest'oggi ci avviciniamo al debut album dei Colossus Morose, una band che raccoglie sotto lo stesso ombrello, nomi della scena tedesca (C.J. dei Transnigth) ed elvetico/norvegese (J.C. dei Black Sputum). 'Seclusion', tanto per cambiare edito dalla russa Endless Winter, contiene sei brani di catacombale funeral doom, quello che ormai ha ben poco da aggiungere ad una scena alquanto stantia negli ultimi tempi. Questo per sottolineare che quanto incluso in questo disco non è altro che una ripresa di suoni dei primi anni '90 (gli albori di Anathema e My Dying Bride), ravvivati da un piglio più moderno, che talvolta abbraccia anche il death metal e poc'altro. Non che 'Seclusion' sia un brutto album sia chiaro, gli amanti di simili sonorità anzi ne andranno certamente ghiotti. Il sottoscritto invece, che negli ultimi 30 giorni ha avuto modo di passare in rassegna decine e decine di band funeral doom, magari si trova un po' troppo saturato mentalmente da simili uscite proprio perché non trova più elementi caratterizzanti. E non è certo una gara a chi regala il riff più abissale, la voce più animalesca (e nella lunga "Catatonical Embrace", J.C. non si tira certo indietro per quanto riguarda le growling vocals) o la melodia più straziante. Il problema è questo genere di sonorità, le ho sentite ormai tonnellate di volte e avrei bisogno di una maggiore freschezza a livello compositivo per decretare davvero vincente un disco funeral. La proposta del duo internazionale poi è ancor più ruvida rispetto a quella di altrettanto esimi colleghi. La salvano le melodie retrò di "Tarnished" che peraltro chiude con una dissolvenza troncata in modo imbarazzante; poi è il turno della ferale "Perpetually Enthralled", in cui il growl del frontman rischia di sfociare in un suino slam. Fortunatamente le linee di chitarra di primissima scuola Paradise Lost, riescono nel compito di tenere su la baracca, altrimenti il rischio di un tracollo era davvero dietro l'angolo. La performance dei nostri sta in piedi anche e soprattutto grazie a "Six", un brano un po' più ricercato tra insormontabili montagne di oscuri riffoni death doom, altri riff melodici e porzioni arpeggiate. Interessante anche la conclusione affidata a "The Spiral Descent", almeno fino a quando il vocalist non emana il suo primo vagito, da rivedere assolutamente la componente vocale. Alla fine 'Seclusion' è un album di onesto death funeral doom che probabilmente poco ha da offrire ad un pubblico divenuto ormai più esigente.
61
The Pit of the Damned Mar 2019
Stefano Torregrossa — Wolf Counsel “Destination Void”
A poco più di un anno di distanza dal terzo full-length 'Age of Madness / Reign of Chaos' (recensito qui sul Pozzo, come il precedente 'Ironclad' del 2016) tornano gli svizzeri Wolf Counsel con un nuovo gioiellino sludge/doom che farà sbavare i fan di Candlemass, Cathedral e Saint Vitus: preparatevi ad un’esondazione di riff, oscurità, esoterismo, metallo e — vi piaccia o no — continui rimandi ai classici del genere. I quattro musicisti sono ormai più che navigati, e si sente: nessuna esitazione, nessun calo di pathos, pochissime falle nel songwriting, il tutto condito da una produzione a cinque stelle — non è un caso che il disco esca per la russa Endless Winter, probabilmente una delle più stimate etichette specializzate in doom metal. L’apertura di 'Destination Void' è affidata ad una citazione evangelica in lingua spagnola (“Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”), che fa da intro all’esplosiva “Nazarene”: un riff a tutta chitarra costruito su una drittissima doppia cassa, su cui una voce alla Wino allestisce un indimenticabile ritornello. Fanno capolino i Black Sabbath in “Nova”, e subito il brano diventa una lentissima e ossessiva preghiera a qualche divinità oscura. C’è una nota epica nella successiva “Mother of All Plagues” che vi costringerà a ondeggiare la testa avanti e indietro, mentre le chitarre orchestrano un perfetto gioco a due voci nel bridge centrale. Sorprende l’intro con un solitario basso in tonalità maggiore di “Men of Iron Men of Smoke”: ma è solo un attimo — l’entrata delle chitarre sposta subito l’asse del brano verso un mood nero e fumoso come l’inferno, dove sono ancora i giochi tra chitarra ritmica e solista a guidare le danze. Silenziatosi l’inquietante organo che apre la title-track, gli Wolf Counsel ci riportano in territori di dannazione e malvagità con le ormai caratteristiche chitarre a battere il quattro (ecco i Candlemass, di nuovo) su un tempo lento e ossessivo, che torna poi epico con il contributo della melodia vocale. Un riff in palm-mute fin troppo citazionista dei Sabbath (cosa non lo è, nel doom metal, dopotutto?) apre “Tomorrow Never Knows”, mentre “Staring Into Oblivion” chiude il disco con i suoi dieci minuti di non originalissime chitarre monolitiche e scariche di doppia cassa, che lasciano poi spazio a quasi quattro minuti di solo ruvido e metallico fino al fade-out finale. Dunque, la domanda finale: il doom ha ancora qualcosa da dire o finirà per ripetere all’infinito i suoi canoni? Questo 'Destination Void' è una risposta: un lavoro che ha il sapore dei classici, ma suona come un disco moderno, peraltro nel solco dei precedenti lavori dei quattro svizzeri. Niente fronzoli, niente editing feroci o effettistica: solo ampli al massimo, passione per l’oscurità (e per la vecchia scuola del doom, chiaramente) e capacità più che rodata negli anni di scrivere pezzi memorabili. Se amate il doom ma non cercate a tutti i costi la sua evoluzione futura, amerete questo disco alla follia.
72
The Pit of the Damned Mar 2019
Francesco Scarci — SuuM “Buried Into The Grave”
La scena italiana brulica in tutte le sue forme e manifestazione, ma è solo grazie ad etichette come la russa Endless Winter che le band nostrane riescono a rilasciare i loro lavori. Non siamo infatti dietro a nessuno nel mondo in alcun genere, e i romani Suum lo dimostrano con una prova convincente che avvicina il sound dell'act italico a band quali Candlemass, Solitude Aeternus o Cathedral. Fatta questa premessa, addentriamoci un pochino di più nel debut 'Buried Into the Grave', un disco che inizia con "Tower of Oblivion" che al di là della classica ritmica doom alquanto ficcante, mi colpisce per una prova vocale che mi porta addirittura agli Heroes del Silencio, un gruppo rock spagnolo degli anni '80/90. Gli ingredienti per fare bene ci sono tutti, dal songwriting ineccepibile agli ottimi suoni messi in pista dal quartetto capitolino, passando attraverso una prova convincente di sette capitoli, mai troppo lunghi di durata, a dire il vero. I quasi cinque minuti di "Black Mist" mostrano più di una affinità con i Candlemass, soprattutto a livello vocale, mentre la musica lenta e sinuosa si affida ad un comparto ritmico formato da Marcas al basso, Rick alla batteria e Painkiller alla chitarra che con la sua sei corde sciorina una serie di ottimi spettrali assoli (notevole quello della title track), mentre il bravo Mark Wolf alla voce, continua ad offrire un'ottima performance, come già ci aveva abituato nei Bretus, o in passato, nelle altre innumerevoli band a cui aveva prestato la sua voce. Questo per dire che per quanto 'Buried Into the Grave' risulti a tutti gli effetti un debut album, abbiamo in realtà a che fare con musicisti alquanto navigati. Certo, sia ben chiaro che i Suum non reinventano il genere, però ne offrono la loro quanto meno personale visione e reinterpretazione, sfoggiando qua e là qualche brano davvero azzeccato. Personalmente oltre alla title track, ho apprezzato sicuramente la malinconica verve di "Last Sacrifice", che pur essendo meno tecnica rispetto alle altre, ha invece un quid melodico, che mi ha colpito più delle altre. Più monolitica ed orientata al versante doom dei primi Cathedral invece "Seeds of Decay"; poi la band ha ancora modo di offrire una traccia strumentale ("The Woods Are Waiting"), che funge più che altro da ponte d'interconnessione con l'ultima "Shadows Haunt the Night", ove le chitarre continuano a regalare riffoni old-school che ci portano indietro di quasi trent'anni, a farci capire che il doom è ancora vivo e vegeto e che forse mai morirà fintanto che nell'aria risuoneranno i riff che gli immortali Black Sabbath iniziarono a suonare ormai cinquant'anni fa e di cui ora si va in cerca solo dei degni eredi.
74
The Pit of the Damned Mar 2019
Francesco Scarci — Fretting Obscurity “Flags In The Dust”
Quando di mezzo c'è la Endless Winter, è lecito aspettarsi solo una bella dose di death doom. Alla stregua della Solitude Productions, l'etichetta di Taganrog è ormai diventata infatti portatrice di tenebre sulla Terra. Non ultimi ad ascriversi alla categoria suoni del destino, arrivano gli ucraini Fretting Obscurity, o meglio l'ucraino Yaroslav Yakos, mente e braccio della band originaria di Kiev. Mi sa tanto che il buon Yaroslav deve essere cresciuto a pane e primi vagiti degli Anathema, visto che la lunga ed estenuante "Flags in the Dust", opener che dà peraltro il titolo al disco, lungo i suoi oltre 13 minuti, più volte fa l'occhiolino a 'Serenades' dei più famosi colleghi inglesi. Non solo Anathema nei solchi di questo disco perchè ovviamente quando il doom si fa più asfissiante (per non dire funeral), ecco che la mente ci riporta anche a 'As the Flower Withers' dei My Dying Bride. È il caso dei minuti conclusivi dell'opening track, ma emergerà anche in altri frangenti del lavoro. "If There Is No Other Way to Love 'Em" nel suo astruso e dissonante arpeggio iniziale, immette la drammatica essenza del doom nelle note poco fluide di un disco davvero complicato da digerire. Questo perchè i pezzi di Yaroslav, oltre ad essere parecchio lunghi (si oscilla tra i 13 e i 18 minuti di durata), non godono proprio di quello che si definisce easy listening. L'ascolto è frammentario, rotto, disarmonico, rarefatto, dissuadente e alla fine estenuante. Non è che la band non sia in grado di suonare sia chiaro, ma quello che è messo in scena qui, per quanto a tratti riesca a toccare le corde dell'emotività (e nella seconda traccia avviene solo dopo sette minuti), risulta davvero difficile da essere affrontato tutto d'un fiato. Pensate poi a come mi possa sentire quando mi ritrovo davanti due colossi da 18 minuti, "Eternal Return" e "Funeral Never Ends". Spaventato è la parola giusta. E non perchè ad attendermi ci sia un suono devastante, tritaossa o spaccabudelle, semplicemente perchè so già che lo stomaco si attorciglierà su se stesso e la mente collasserà dopo aver ingurgitato simili sonorità che nella prima delle due song, si lancia addirittura in una qualche accelerazione death, prima di sprofondare nella drammaticità atemporale di un suono radicale, che ha anche modo di richiamare la cupa essenzialità dei Mournful Congregation tra ipnotiche melodie di chitarra che evocano anche un che dei Tiamat di 'Wildhoney'. Alla fine, il quadro per il sottoscritto è più o meno delineato, a voi ora l'arduo compito di affrontare la scalata di una cosi ardua montagna.
64
The Pit of the Damned Mar 2019
Francesco Scarci — Fordomth “I.N.D.N.S.L.E.”
Dopo Solitude Produtions e sub-labels varie, anche l'altrettanto russa Endless Winter sta salendo in cattedra per ciò che concerne le uscite in ambito funeral doom. Addirittura questa volta la label della cittadina di Taganrog, ha messo sotto contratto i nostrani Fordomth, formazione sicula a ben sei elementi. 'I.N.D.N.S.L.E.', acronimo che starebbe per 'In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi', è l'album d'esordio del sestetto di Catania, un lavoro che sebbene registrato nel 2015, è uscito solamente sul finire del 2018. Il genere? Un funeral doom dalle tinte più black che death, che va a dipanarsi lungo quattro estenuanti song (più una breve intro) per ben 55 minuti di musica. E di questi 55 minuti, balzano all'occhio i 24 asfissianti minuti di "Chapter III – Eternal Damnation" ma andiamo con ordine, perché vanno affrontati prima i quasi 12 iniziali di "Chapter II – Abyss of Hell", una song decisamente obliqua nel suo lentissimo e cupo avanzare. Quello che mi colpisce è un riffing, le cui due linee di chitarra, sembrano muoversi sui dettami dei primissimi Anathema la prima, e su quella dei primissimi Cathedral la seconda, intersecandosi pericolosamente in un abissale magma sonoro, da cui emergono i vocalizzi dei due cantanti, uno da orco cattivo a cura di Gabriele Catania e l'altro epico e sofferente ma pulito, di Federico Indelicato (che peraltro vede più di un'analogia con i vari frontmen passati per i Void of Silence), in una proposta alla fine dal mood quanto meno disperato e straziante, in quell'invocante incedere che somiglia più alla colonna sonora del peggiore dei nostri incubi. Evocante, insana, terrificante, sono solo alcune delle splendide sensazioni che pulsano dalla terza destabilizzante traccia, una maratona sonora che nel suo flusso angosciante, ha modo di regalare altre terrificanti emozioni da film dell'orrore, incanalandosi in plumbei pertugi ambient, che nuovamente mi hanno smosso nell'animo un che degli Evoken ma anche dei teutonici Traumatic Voyage dello splendido lavoro 'Traumatic...'. Piacevolmente colpito dalla malsana proposta della compagine sicula, mi lancio con somma curiosità all'ascolto di "Chapter IV - Interlude", giusto per capire come si possa intrattenere il pubblico con un interludio di quasi nove minuti. Presto detto, è sufficiente affidare il tutto ad uno straziante duetto formato dal violino di Federica Catania e da uno spettrale pianoforte, socchiudere gli occhi e provare a non disperarsi di fronte alla drammatica forza emotiva di questa band. "Chapter IV - Interlude" è la song che chiude il disco in un sordido death doom stile Anathema (periodo 'Pentecost III') in formato blackish, non tanto per i gorgheggi profondi (ma anche in screaming) del cantante ma per quell'aura mefistofelica che avvolge l'intero brano e che rende il tutto cosi tremendamente affascinante per il sottoscritto. Sebbene qualche ingenuità, legata ad una stesura ormai vecchia di quasi cinque anni, per me 'I.N.D.N.S.L.E.' è un intenso ed importante biglietto da visita per la band per spiccare verso lidi più lontani.
75
The Pit of the Damned Feb 2019
Ian Morrissey — In Oblivion “Memories Engraved In Stone”
'Memories Engraved In Stone' is the first full-length release of American Funeral Doom band In Oblivion and it's also the first time I've heard them play too. I didn't really have any idea of what to expect other than that it'd be a Funeral Doom release, which did indeed prove to partially be the case.
My initial impression of the start of the album was that although the band didn't do much wrong, I didn't feel like they made themselves stand out at all. I appreciate that that can be a tricky thing for a Funeral Doom band to do because it's a pretty restrictive sub-genre to begin with. I just thought that they played it a little safe, to be blunt, and I was beginning to get a little exasperated. However, my impatience proved to be the only main fault as In Oblivion eased into their groove as the album progressed, changing their style and generating a more memorable atmosphere.
As it happens, In Oblivion did a very mature job of alternating their style and keeping their sound fresh. Vocally, the lead switches through a range from brutally guttural Death Metal to less-harsh melodic Death/Doom-style growls, with occasional blackened backing vocals. Synths are introduced as the album progresses, and the style varies between Funeral Doom and the odd surge of Death Metal. Indeed, I couldn't state that In Oblivion are solely a Funeral Doom band, especially not when the band they remind me of the most is Mourning Beloveth. I'd be more tempted to describe them as a hybrid of both Funeral Doom and Death/Doom with a stronger leaning toward the latter than the former. Even their Funeral Doom is a touch faster than most.
Still, that doesn't prevent the band from generating interesting atmospheres. Whether shepherded by guitars or steered by synths, In Oblivion keep things punchy and powerful. Their vocals are very good and although their songs sometimes feel a bit too long, I did enjoy the journey that they took the listener on. At times they reminded me of both Mourning Beloveth and The Prophecy but In Oblivion aren't a copycat band, which is good.
At the end of the album, I felt pleased to have encountered this release. It's not the best album I've ever heard but it's a long way from being the worst. I did find the mix a bit annoying at times because the vocals are too prominent but it was mostly executed well. The music kept my attention well and was generally performed in a manner that I liked. Again, you could make the argument that some of the songs are a touch too long but it wasn't detrimental enough to put me off. The less-harsh vocals sometimes felt like the band were trying to copy My Dying Bride too much without possessing the emotive qualities of Aaron Stainthorpe so that was a bit annoying too. Still, I'm curious to see what the next step for this band is because this was an interesting debut to build upon despite the odd flaw. They've clearly got some ability, In Oblivion, so let's see if they can take it to the next level to truly make a name for themselves.
Overall, I liked the release. It's definitely worth a listen. I doubt anyone will fall in love with it but I'd be surprised if anybody hated it either.
6,5/10
Doom-metal.com Dec 2018
Matt Halsey — Colossus Morose “Seclusion”
Colossus Morose are a Norwegian/German duo playing the sort of slow Death/Doom that stays very true to its form but includes a few morcels of other extreme genres, purely to season the pot, so to speak. The workload is split, as it is so often with duos of this ilk, between a vocalist and an instrumentalist. Both are fairly well-seasoned musicians themselves, playing and singing as they do in a number of other bands and entities, all of which are to be found within the realms of extreme metal. Active since 2015, 'Seclusion' is their debut release as Colossus Morose, and is out now on Russia's Endless Winter imprint.
As much as I enjoy a good demo, I kind of like it when a band gets straight on with it and puts out a full length, properly produced album with label backing. It brews an air of confidence but also, one would hope, makes for a far more realistic musical statement of what the band are all about. There are no real suprises here musically, (apart from the 'pig-squealing' vocals on 'Perpetually Enthralled'), what you're getting is old school Death Doom of the traditional variety. Throw in a few passages of melodic lead guitar, fewer still bits of actual Death Metal, the tiniest amount of Funeral Doom, and one or two bits that sound like some of those lo-fi Black Metal bands do when they've run out of steam, and you're about there. Pick your own comparisons both ancient and modern, there's plenty to chose from, and not worth arguing about who they sound like. It's fairly obvious.
On the whole though, 'Seclusion' is a steadfast and concerted effort. No, it's not reinventing the wheel, but nor is it a pale imitation of past glories. It actually goes a long way in keeping the Death Doom fires burning bright. Track five, titled 'Six', is an atmospherically spooky dirge which lends itself perfectly to the production which gives the recording a nicely nostalgic air whilst containing none of the 'dated' feel you get on certain releases from back in the day. For my money, whilst the music is very well executed and deserving of praise, the vocalist must also get a mention for being both versatile and convincing throughout. I still feel however that the squealing was a little bit misguided. 'Perpetually Enthralled' is one of the more interesting tracks on the album and I just think ,in the grander scheme of things, that that particular vocal is way off beam there. That said, he did used to sing in the charmingly monickered Oral Fistfuck. No prizes for guessing what they sounded like, so perhaps he was having a flashback. We may never know.
7,5/10
Doom-metal.com Sep 2018
Ivan Tibos — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Endless Winter do profile themselves as a Doom-only label, and you can accept that very literally. They release only Doom for sure, but it can be every kind of Doom existing: Epic Doom, Traditional Doom, Stoner-Doom, Doom-Death, Doom Rock, Funeral Doom or, for my part, Doom Doom. That also explains why a band like Satori Junk is part of their roster.
This band was formed ‘among the dense fog and the smoke of the urban waste landfills’ about six years ago in Milan, Italy, born to compose ‘an acid cocktail full of fuzz and electronics’, with the intention to disturb and trap the naïve listener ‘in their rabid and uncomfortable distorted world’. Yeah, why not… In early 2013 they independently released their first record, the demo Doomsday. Two years later, the band was able to have their first official full-length studio recording released. This untitled (or self-titled) album was mastered by nobody else but James Plotkin, and it was released via Italian Doom / Stoner label Taxi Driver Records. Then things went quiet, and the drummer left. However, after recruiting a new drummer, Max, the original members Luca (vocals and keyboards, Theremin and artwork), Lorenzo (bass) and Chris (guitars) entered the studio once more, again assisted by Enrico Baraldi (think: Grime, Ooze, Woodwall etc.) for recording and mixing duties. The mastering was taken care of this time by Claudio Adamo. This second album comes in a digital edition (via the band’s Bandcamp page) and on CD (via Endless Winter), including an eight-page booklet that includes the English lyrics. Oh yes, mind the cover artwork!...
For sixty minutes, Satori Junk take us on a journey beyond walls of safety, towards most horrific landscapes. This is some psychedelic trip (I told you to mind the cover artwork!), mingling Stoner and Doom elements with a huge dose of drug-infused Sixties / Seventies attitude. It actually starts with the weird intro, which is like a spoken presentation of the terror that we’ll meet during this hour of sonic discomfort. The whole experience twists, confuses, flies straight-forward and turns around, and back, balancing in between calmer, mesmerizing parts and massive, colossal excerpts. There is no fear to enter side-worlds of Groove and Blues, even though these aspects are, in a sporadically used presence, inferior to the pounding and pushing heaviness. The use of Theremin strengthens the trippy, spacy atmosphere, and the brute, monumental repetitive riffs and rhythms bring the listener into an unearthly trance. Cool are the few ethereal fragments, based on gloomy synths (sometimes mingled with fine yet simple percussion, such as bells / chimes / triangle, like on the songs’ outros). It’s fuzzy, distorted and even ironic in a cynical way.
The voice of Luca (Luke, if you want) is little yammering and whining, but this does not need to be something negative at all. On the contrary, it fits very well to the Doom epic and atmosphere of the band. The vocals, however, are quite limited, for the focus lies on the instrumentation especially. Besides, these vocals aren’t mixed to evidently to the foreground; on the contrary, their presence is equal to the guitar leads and rhythm section. Which brings me to the sound quality, which is, to my opinion, quite okay. The equilibrium after the mix creates an equally segmented aural presence for all things involved, whether it concerns a leading piece or a supportive one. Fine is the rough guitar sound, for the melodic riffs are the basement that carries the whole thing.
Remarkable, yet not that unexpected or bizarre, is the cover track Light My Fire from The Doors. I do have a love-it-or-hate-it affair with that (legendary) band, for some of their songs I adore, and some I simply detest. This specific track, and then I am referring to the original one, accidently falls in between both. However, the cover version of Satori Junk is quite insolent, and that’s just great. The band created a cool remake of this well-known song, once again adding a very personal, own-faced twist in the completion.
Consider it a mixture of Ufomammut, Yob, Acid Witch, Sleep, Saint Vitus, Electric Wizard, Conan, Abysmal Grief and Black Oath, and why shouldn’t I mention Black Sabbath (listen to those glorious riffs in the title track!), yet with an own sound and soul…
70/100
ConcreteWeb Sep 2018
vladkraykulla — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Satori Junk is the band hailing from Milan, Italy and this is their second full length album out on mighty Endless Winter Label. I listened to the record and reviewed it for this webzine.
The album contains intro plus six songs, one of them being The Doors cover of “Light my Fire”. The music Satori Junk are playing is some hybrid of doom metal with a lot of atmosphere and darkened, almost psychodelical passages with lyrics which draw inspiration from horror movies and literature combined with nightmares. Sound interesting? It bloody is. “All Gods Die” starts like a dreamy, atmospheric voyage, evolves into full blooded up tempo doom metal song only to die down in murky atmosphere again. “Cosmic Prison” starts almost as sludgy, rolling song being very tortured and very painful, like being trapped in the atmosphere of Lovecraftian cosmic horror. The electronic back sounds only add to the eerie feeling of this song. “Blood Red Shrine” is for me the best song on this record, having almost tribal, ritualistic primal vibe in its song structure. “Death Dog” is the longest song on this record and it reminds me a lot of old Hammer horror movies, I don´t know why, but it is a good thing. The title song is slow and dreamy, nightmarish doom horror anthem. I don´t like The Doors and their music but this cover of “Light my Fire” in doomy, sludgy version was just great. I am not a fan of music such as this, but this is a decent effort.
7/10
KRAYKULLA-WEBZINE May 2018
Micha — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Hier ist die neue Veröffentlichung des italienischen Acts Satori Junk.
Satori Junk wurde 2012 in Mailand (Italien) gegründet und ist ein Projekt, bei dem schwere Fuzzy-Riffs mit eher klassischen Einflüssen aus den Siebzigern kombiniert werden, einer suggestiven Mischung aus großer Sättigung und Synthesizern. Eine massive Klangwand, die Raum für einen immersiven Trip in die Psychedelia lässt. Die Texte sind oft von gruseligen Träumen und Horrorfilmen inspiriert. Das Hauptziel der Band besteht darin, die Zuhörer einzufangen und sie in ihre verzerrte und tollwütige Dimension zu ziehen.
Dezember 2012. Nach vier Monaten Probe und Jamming nahm die Band an einem einzigen Tag ihr erstes Demo auf. Im Oktober 2013, nach vielen kleinen Gigs in der lokalen Szene, begann Satori Junk, Doomraiser bei ihrer Mailänder Show zu unterstützen. Aufgrund dieser positiven Erfahrung beschloss die Band, ihr gesamtes Repertoire aufzunehmen, und im Januar 2014 begannen die Aufnahmen des ersten Albums. Die selbstbetitelte LP wurde im Februar 2015 von Taxi Driver Records veröffentlicht.
Nach dieser Veröffentlichung trat die Band in zwei der wichtigsten italienischen Underground-Festivals auf: Solo Macello und Navajo Calling, die mit Bands wie Red Fang, Iron Reagan, Mortuary Drape, Caronte, Saturnalia Temple, Kröwnn und Black Oath auf der Bühne standen.
Die nächsten zwei Jahre waren sehr intensiv mit vielen Live-Shows und Auftritten für viele internationale Bands wie Lord Vicar, Salem’s Pot, Midnight Ghost Train, Bright Course, Abysmal Grief, Nibiru, Ira del Baccano.
Im Juni 2017 begann Satori Junk mit der Aufnahme des zweiten Albums The Golden Dwarf.
Metaller.de May 2018
Ian Morrissey — Fretting Obscurity “Flags In The Dust”
This is my first experience of Ukrainian one-man Doom act Fretting Obscurity. Initially, the fact that it was an Eastern European Doom act on their debut with broken English tattooed across their album made me worry that this would be a release I'd heard before. I'm pleased to say that the listening experience was actually rather interesting.
I don't want anybody to confuse "interesting" with "good", though, because the latter might be a bridge too far here. There are good elements to Fretting Obscurity's music but as a whole, some of it leaves me cold. For example, I'm not a fan of drum machines, for example, and sometimes the mix makes the music sound rather fuzzy.
Nonetheless, Fretting Obscurity has put together an album that I find to be rather unique, if only for the lyrical content. Every song they've concocted on 'Flags In The Dust' sounds incredibly personal. Each is like a blueprint from Yaroslav's past, and in a time where only "cool" lyrical content appears to be desired, I find this to be a rather refreshing approach. During this composition, Yaroslav talks about things like his love for his country, what it feels like to abandon your values, the absence of God, and the way in which the world is changing. Most people I encounter are not quite so forthcoming with their views on personal matters so kudos to Yaroslav for putting out a decidedly genuine release.
Musically speaking, what you'd be listening to if you purchased this album is a Death/Doom composition. I couldn't say that Fretting Obscurity follow any band specifically but they do utilise certain elements from other bands (e.g. the guitar work reminds me of Saturnus or later Tristitia), as everybody does nowadays, I suppose. I have to emphasise that it's more Doom than Death but I found it oddly satisfying to listen to. Although a touch plodding in parts, the spiralling solos kept the music edgy and Yaroslav's growls kept the music intense to boot. It's not a complicated nor a rare combination but it's one that works. "Dramatic" is definitely the word I'd use to describe 'Flags In The Dust' as an album.
Honestly, I couldn't say that I'd recommend this album to everybody because it strikes me as the kind of release that will divide people even more than usual. I'd tentatively suggest that those who prefer a more polished approach to Death/Doom would not be fans of this album. However, those that appreciate atmosphere over production might well find some merit here. There are good and bad elements on 'Flags In The Dust', to be frank, and it's up to the individual as to which stands out more. For me, the album is fairly good; I know I won't forget listening to it straightaway. There are things that Fretting Obscurity needs to work on (e.g. production, avoiding too much repetition) but isn't that the case with most debut releases? I'll certainly keep an eye out for this band in the future because I think there's potential for Yaroslav to do well.
6,5/10
Doom-metal.com Sep 2018
Stefano Cavanna — In Oblivion “Memories Engraved In Stone”
Delle tre uscite offerte dalla Endless Winter in questa parte del 2018, quella degli In Oblivion è la più canonicamente vicina al funeral doom, anche se quello dei texani presenta diverse digressioni come le accelerazioni di stampo black che deturpano l’opener Wreathed in Gloom.
Memories Engraved in Stone è il full length d’esordio, che segue l’ep autointitolato del 2015 dal quale vengono riprese sia la già citata Wreathed in Gloom che la title track: il quintetto di Austin prova con discreto successo ad ammantare di un velo cupo ed impenetrabile il proprio sound, ed è fuor di dubbio che le cose vadano senz’altro meglio quando il tutto diviene più rarefatto ed atmosferico.
L’opener è un ottimo brano che, anche se forse ancora un po’ acerbo, presenta notevoli spunti ma è in An Eve in Mourning che i nostri puntano al bersaglio grosso, rischiando anche qualcosa di loro con la ripresa delle ben note sonorità della Marcia Funebre; la pacchianeria infatti incombe sempre su operazioni di questo tipo, mai gli In Oblivion vi sfuggono abilmente abbandonando dopo circa due minuti gli schemi chopiniani (che verranno nuovamente richiamati nel finale) per elaborare, di fatto, sonorità proprie e dotate di un tasso drammatico ed evocativo non indifferente.
E’ proprio qui che il rantolo terrificante di Justin Buller si sposa a meraviglia con il lento dipanarsi melodico del brano, a dimostrazione della disinvoltura nel trattare la materia da parte della band statunitense.
La title track è ancora più cupa, a tratti solenne, con qualche richiamo alla scuola russa (Comatose Vigil, Abstract Spirit) nel lavoro tastieristico, mentre nella conclusiva e piu lunga traccia del lotto, In Perfect Misery, gli In Oblivion si concedono diversi minuti di respiro prima di infierire nuovamente e in maniera definitiva sui nervi scossi dell’ascoltatore.
Chiedere ad una band che suona funeral una maggiore sintesi potrebbe sembrare bizzarro, ma in effetti agli In Oblivion, per ora, manca la dote innata di trovare il giusto sbocco emozionale alle diverse buone intuizioni messe in mostra (il finale di In Perfect Misery è emblematico in tal senso, e ci si chiede perché uno spunto melodico così bello non sia stato sfruttato in maniera più generosa).
La competenza c’è, l’attitudine pure: la presenza questi due elementi fa pensare che nel giro di poco tempo gli In Oblivion potrebbero regalarci qualcosa di davvero importante; per ora, comunque, bene così.
7.3
Iyezine Aug 2018
Vlakorados — In Oblivion “Memories Engraved In Stone”
Ci eravamo lasciati con gli In Oblivion quasi tre anni fa, ai tempi del loro EP di debutto, con una certa acquolina in bocca. Finalmente la band americana è riuscita a esordire anche sulla lunga distanza con "Memories Engraved In Stone", soddisfacendo la nostra fame di angoscia e disperazione.
La scaletta composta da quattro tracce per un totale di oltre un'ora di musica ci conferma che siamo ancora nel gioioso mondo del Funeral Doom. Due dei brani, il primo e il terzo, sono versioni ri-registrate di quelli presenti nel precedente lavoro: in questa nuova veste, il suono è stato ripulito e raffinato, dando più spazio alla melancolia delle tastiere; gli intrecci più evidenti tra questo strumento e le chitarre, inoltre, risultano un'ottima novità che dona maggiore espressività a diversi passaggi.
Seguendo lo stesso stile, i due pezzi nuovi si confermano all'altezza di quelli già noti: in particolare spiccano gli oltre venti minuti di "In Perfect Misery", grazie a un lungo intermezzo atmosferico in cui chitarra e tastiera affliggono l'ascoltatore con note pregne di dolore, almeno fino al ritorno in territori prettamente metallici che avviene con un riff altrettanto sofferente. Non è da meno "An Eve In Mourning", più standard e priva di vere e proprie sorprese, eppure perfettamente in grado di non sfigurare grazie a una qualità della composizione e dell'esecuzione non indifferente.
Come già accadeva nell'EP, gli In Oblivion si dimostrano capaci di inserire variazioni al momento giusto: oltre ai già citati momenti di calma, alcune dinamiche vicine al Death Metal fanno capolino qua e là senza inficiare la natura funerea e monolitica della musica; l'esempio più lampante è senza dubbio l'accelerazione di "Wreathed In Gloom", ma sono presenti anche altri casi meno evidenti.
Non c'è molto altro da aggiungere, se non che "Memories Engraved In Stone" è un ottimo esempio di Funeral Doom che saprà soddisfare gli amanti del genere; oltretutto, anche in questo caso, il lavoro grafico esemplifica alla perfezione il contenuto musicale del lavoro. Davvero un bel primo disco per gli In Oblivion.
Aristocrazia Webzine Aug 2018
Stefano Cavanna — Fretting Obscurity “Flags In The Dust”
Flags in the Dust è il primo parto discografico dei Fretting Obscurity, in realtà progetto solista del musicista ucraino Yaroslav Yakos.
Il death doom offerto nel corso di quest’ora abbondante è molto ortodosso, anche se possiede un che di antico, che a tratti ci riporta piacevolmente alla memoria album seminali per il genere come Serenades degli Anathema, tanto per citare quella che sembra essere la primaria fonte di ispirazione.
Anche per questo il lavoro si snoda con belle intuizioni melodiche sorrette da uno stile chitarristico un po’ naif ma alla lunga efficace, se è vero che al death doom si richiede soprattutto di produrre emozione e certo non virtuosismi strumentali in serie.
Così, tra dissonanze e distorsioni, il bravo Yaroslav ci introduce alla sua personale interpretazione del dolore che si fa musica, e tutto ciò avviene in maniera convincente, soprattutto se si è amanti, come detto, delle sonorità dei primissimi anni ottanta, anche a livello di resa sonora.
Così, se la title track si fa apprezzare appunto per i rimandi agli esordi dei fratelli Cavanagh, la successiva If There Is No Other Way to Love ‘Em si fa da subito struggente con un solo chitarristico sicuramente perfettibile ma ugualmente toccante, e cresce nel suo andamento più vicino al funeral.
Se Eternal Return è un brano ancora più lungo lungo ma interlocutorio, è senz’altro meglio la conclusiva Funeral Never Ends, nella quale il lavoro chitarristico diviene nuovamente fondamentale per rendere evocativo come merita il sound dei Fretting Obscurity.
Se l’album a livello compositivo non lascia spazio a recriminazioni, qualcosa da rivedere c’è invece dal punto di vista esecutivo e della produzione: la conformazione da one man band non sempre è la causa principale di una resa sonora scarna e perfettibile (i Doomed di Pierre Laube sono la dimostrazione più recente dell’esatto contrario) ma in questo caso forse Yakos avrebbe bisogno di qualcuno con cui confrontarsi, perché la sua conoscenza della materia è fuori discussione, ma la messa in pratica necessita ancora di qualche aggiustamento.
Detto ciò, Flags in the Dust è un primo passo che merita un’abbondante sufficienza, perché alla fine i lati positivi superano quelli negativi, ancora troppi però per avvicinare per ora i Fretting Obscurity ai piani alti del genere.
6.7
Iyezine Aug 2018
Stefano Cavanna — Colossus Morose “Seclusion”
Ancora un esordio sotto l’egida della Endless Winter: questa volta tocca al duo Colossus Morose, formato dal tedesco C.J., il quale si occupa dell’intera parte musicale, e dal vocalist J.C., svizzero ora di stanza in Norvegia.
Il death doom proposto in Seclusion lascia uno spazio limitato alla melodia, anche se tale aspetto non è comunque del tutto assente, privilegiando un impatto più ruvido, con il lavoro chitarristico del musicista di Hannover che tesse un substrato sonoro denso e poderoso, sul quale si staglia il growl profondo e sofferto del suo compare elvetico.
Il lavoro gode di una durata ragionevole, cosa positiva anche in virtù delle caratteristiche di un sound piuttosto cupo e d’impatto, privo di particolari variazioni ritmiche o atmosferiche ma incisivo in ogni sua parte; una buona registrazione ed un’esecuzione complessiva apprezzabile rendono Seclusion un’opera di sicuro spessore, consigliata a chi predilige il death doom più ruvido e meno consolatorio.
Tra i brani spoicca la notevole Six (che nonostante il titolo è il quinto brano in scaletta …), in virtù di qualche variazione sul tema in più con l’alternanza chitarristica tra riff, parti soliste ed acustiche.
Anche non si tratta di un qualcosa in grado di sconvolgere le gerarchie all’interno della scena, il primo full length dei Colossus Morose mette in luce una realtà di sicuro interesse e con diverse frecce al proprio arco da poter utilizzare ancor meglio in futuro.
7
Iyezine Aug 2018
Mourning — Fretting Obscurity “Flags In The Dust”
Nel corso di questi ultimi anni Endless Winter ci ha proposto svariate band interessanti e chi segue abitualmente Aristocrazia le avrà sicuramente incrociate. In questa specifica circostanza mi trovo fra le mani l'album dei Fretting Obscurity, al debutto con "Flags In The Dust".
Il progetto ucraino è opera del solo Yaroslav Yakos, che si presenta con un Funeral Doom di stampo decisamente classico nel quale è possibile riscontrare la matrice sonora dei Paradise Lost più cupi di inizio carriera e quella dei Mournful Congregation, formazione dalla quale lo stesso artista ammette di avere tratto ispirazione. Inoltre sono presenti partiture che richiamano il Doom-Death e sfumature Heavy.
La proposta è formalmente ben realizzata ed espressa con discreto gusto attraverso quattro lunghi episodi tematicamente colti, che si avvalgono del pathos e della psicologia di William Faulkner ("Flags In The Dust"), della teatralità di Jean-Paul Sartre ("If There Is No Other Way To Love 'Em"), della religiosità dell'Ecclesiaste ("Eternal Return") e della capacità di trattare temi esistenzialistici di Albert Camus ("Funeral Never Ends"). D'altro canto si riscontra l'assenza della capacità di affondare il colpo a livello emotivo, tipica delle band citate in precedenza, la quale avrebbe reso meno evidenti o quantomeno trascurabili alcune piccole pecche: per esempio l'assenza di un paio di cambi di passo dal punto di vista ritmico o una certa elementarità nell'uso della melodia.
Tirando le somme, "Flags In The Dust" dei Fretting Obscurity è una prima prova che non dispiace e che esprime con chiarezza le intenzioni e le passioni musicali di Yakos. Affinché il giudizio oltrepassi il muro della sufficienza, seppur decisamente piena, attendiamo maggiore consistenza e definizione nella proposta, insomma una generale maturazione. Realtà da tenere d'occhio.
Aristocrazia Webzine Aug 2018
Bosj — Shattered Sigh “Distances”
Da buon genere medio-borghese, è abbastanza raro che il metal riservi delle sorprese, ragion per cui è ancora più bello quando si presentano in punta di piedi, come fanno gli Shattered Sigh. Al debutto nonostante sia già in attività da ben otto anni, la band arriva da Barcellona e insospettabilmente ruota attorno alla figura della tastierista Lourdes Machado, unico membro fondatore rimasto dopo una nutrita serie di avvicendamenti e cambi di ruolo (che devono avere avuto un peso importante nel ritardo con cui sono stati conclusi i lavori per questo album).
Trovato il supporto della piccola e specializzatissima Endless Winter, il quintetto ha dato alle stampe "Distances", che rientra perfettamente nella tradizione dell'etichetta russa: doom metal, death metal, tristezza a palate. E gli Shattered Sigh sono bravissimi a dare forma a questa tristezza, a canalizzare la propria sofferenza e metterla in musica. Benché non sia specificato chi abbia composto cosa, mi piace pensare che sia stato il tocco femminile a dare una personalità particolare alle sei canzoni, da un lato profonde e sofferenti come da tradizione funeral, dall'altro sorprendentemente leggere e facili da assimilare. I primi nomi a saltare in mente sono quello degli Shape Of Despair per la quantità enorme di tastiere e quello degli Swallow The Sun per la morbidezza dei suoni e la durata tutto sommato contenuta dei pezzi (non si va mai oltre i sette minuti), nonostante la mole di cose che succede al loro interno.
Non creano niente di eccessivamente cattivo, gli Shattered Sigh, preferiscono che a trasmettere il loro dolore siano delle chitarre più morbide, dei riff corposi, ma non abissali, e di nuovo una marea di tastiere. Un altro punto interessante è la presenza di un turnista dietro al microfono, indicato semplicemente come Emilio, che si fa notare per un growl cupissimo, profondissimo e sofferentissimo che fa da perfetto contraltare alle melodie che invadono ogni anfratto di "Distances". Se proprio invece vogliamo trovare un pelo nel gustosissimo uovo preparato dai Catalani, è nei testi: che l'Europa mediterranea ancora non sia troppo a suo agio con l'inglese è storia vecchia, e i versi urlati dal tristissimo Emilio sono un po' troppo semplicistici per fare davvero colpo. D'accordo che il doom più funereo non necessiti di trattati sulla filologia romanza, ma nel 2018 si può dire qualcosa di più di «Everyone is behind / Behind a curtain / Of falsehood and deceit», perché si rischia di far appassire con alcune banalità un album che invece è tutto fuorché banale.
C'è da augurarsi vivamente che gli Shattered Sigh riescano ad andare avanti con una formazione stabile e a dare presto vita al seguito di "Distances". Tutti gli amanti del doom più finnofilo, estremo e melodico, ne saranno soddisfattissimi.
Aristocrazia Webzine Aug 2018
Mario Andrés Rivas — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Cuando escuchamos el álbum debut de la banda italiana Satori Junk publicado a principios de 2015, nos encontramos con un grupo clavado en la psicodelia más ácida con la intención de regalarnos densas melodías llenas de imágenes terroríficas inspiradas en aquel cine de horror de los años 70's conocido como Giallo. Tuvieron que pasar tres largos años para que el cuarteto originario de Milán trabajara en su continuidad discográfica, material que al fin tenemos la oportunidad de escuchar.
Tuvimos noticias a través de las redes sociales que Satori Junk entraba a los estudios de grabación en junio de 2017 de la mano de Enrico Baraldi para grabar su segundo disco. Las preguntas comenzaron a rondar por la mente sobre si el grupo mantendría el mismo concepto sonoro o si el largo tiempo transcurrido entre ambas producciones significarían una modificación drástica en su estilo. A través de la disquera rusa Endless Winter se ha publicado The golden dwarf y las dudas han comenzado a ser despejadas.
Desde sus primeros segundos, el nuevo material de los italianos nos regala un progreso en comparación a lo alcanzado en su debut pero sin dejar a un lado lo que nos enamoró en aquel momento. Quizá la primera diferencia entre ambas producciones es el trabajo compositivo más maduro que orientó a la construcción de temas más largos donde se detecta diversos momentos como si se trataran de movimientos de una obra clásica, lo que permite una gran versatilidad de ritmos y melodías que se traducen en sensaciones variables que mantienen al oyente en atención permanente durante los sesenta minutos de su duración total.
Con el uso de guitarras más ásperas y teclados omnipresentes, The golden dwarf nos sumerge en una versión de Satori Junk mucho más abismal y aletargada que a la menor provocación se transforma en una bestia furiosa que se arroja contra nosotros. Los densos riffs se convierten en infranqueables muros de sonido que sirven de base para melodías alucinantes que bien pueden hablar sobre películas de terror como en su álbum debut como también sobre horrores venidos del espacio exterior bajo la visión del mítico maestro H.P. Lovecraft.
Con tan solo seis nuevos temas propios y un mórbido cover a los legendarios The Doors, el segundo material de Satori Junk nos lleva a obscuros territorios de atmósferas densas en las cuales es muy difícil respirar. Si la influencia de la vieja psicodelia ácida era la base del sonido del grupo, para esta ocasión el grupo retoma el doom al estilo de Electric Wizard y el stoner más profundo de Sleep y Dopethrone para construir un telón sonoro muy espeso, quizá tan pantanoso que es imposible escapar de sus profundidades.
La ilustración realizada por Roberto Borsi que sirve de portada para el The golden dwarf es una muestra fiel de lo que guarda en su interior: un disco monstruoso que te ofrece a partir de un lisérgico brebaje un fuerte viaje sonoro que puede despertar las más pesadas pesadillas. Todo comienza de manera muy suave gracias a los primeros acordes de "All gods die" con aquel sabor a blues que termina transformándose en una tormenta de distorsión que golpea sin piedad. Los hirientes rasgueos de guitarra continúan en "Cosmic prison" y en el tema que le da nombre al disco, pero el tiempo se hace lento como si se tratara del paso aletargado de un condenado a muerte. Sin embargo, cuando llegamos a "Death dog" nos encontramos con un animal de tamaño colosal dispuesto a morder todo lo que se le ponga enfrente.
Para crear ambientes más tétricos de lo obtenidos en el disco anterior, Satori Junk utilizó sintetizadores digitales en combinación con teclados análogos en manos de Luke von Fuzz, quien también mantuvo su seca voz para darle lírica a los temas; aunque ella quedara abajo de decenas de capas de sonido en la mezcla final. Como ejemplo ideal para el sonido alcanzado en The golden dwarf tenemos a "Blood red shrine", tema concreto de golpe constante marcado por la batería de Max y los fuertes acordes eléctricos de la guitarra de Chris que se distingue por su melodía hipnótica de sonido hosco alcanzado por la gravedad del bajo de Lory Grinder. Bajo una abrupta atmósfera, el horror comienza a filtrarse por las bocinas para hacernos entender que estamos frente a un ritual sangriento que ofrece el vital líquido a las fuerzas del mal y lo desconocido.
A través del trabajo visual creado por Gryphus Visual, encontramos un apoyo icónico para el engendro auditivo de Satori Junk. En calidad de "FanVid", disfrutamos de algunos extractos cinematográficos bajo efectos visuales de simetría y filtros multicolor que denotan psicodelia y horror, elementos que a su vez distinguen a la banda italiana. Rituales satánicos, sectas malignas y sacrificios humanos saturan la pantalla mientras guitarras ensordecedoras y teclados hipnóticos se desbordan por los auriculares.
Aquí está el regreso discográfico de Satori Junk, pero con ello también su retorno a los escenarios. Tras la experiencia adquirida por compartir espacio con gente del nivel de Red Fang, Lord Vicar, Salem's Pot, My Home on Trees o Midnight Ghost Train, el cuarteto italiano tiene todas las armas necesarias para trasladar lo creado en su The golden dwarf a las presentaciones en directo. Ahora tendremos que dejar madurar el material para conocer su justa dimensión dentro de la escena actual del doom y la psicodelia pesada, pero quizá sea esta la mejor oportunidad del grupo de Milán para establecerse como una de las mejores promesas dentro de su género...
EARTHQUAKER July 2018
Andy Thunders — SuuM “Buried Into The Grave”
Buried into the Grave is the latest offering by SuuM, is a fantastic traditional doom band from Italy. With influences from Saint Vitus and Candlemass, they definitely show that a real good quality doom album doesn’t have to be over thought.
Tower Of Oblivion begins with an ominous thunderstorm, and heavy dirge like bass riff, leading into a funeral march of a vibe. Ghastly, haunting vocals, forlorn and twisted. Reminiscent of German doom band Angel Of Damnation, it’s a fantastic sound and vibe. Like fog over a medieval graveyard. Amazing guitar work.
Black Mist is reminiscent of Saint Vitus on their first two albums, with the riffs of Candlemass. Crushing, pure unadulterated doom.
Buried into The Grave has a great riff, and a great groove. Images of Nosferatu come to mind. These dudes are really fuckin great. They got the riffs, the groove, the lyrics, the vibe. They’re well versed in the power of the riff, and worship its very existence. That’s what it’s all about.
Last Sacrifice kicks in with a straight up early Sabbath inspired riff, creating a wonderful song, with seriously an ungodly awesome riff. The middle section where it slows down, is so epic and atmospheric, and it’s simple. This is how heavy metal should have progressed from 1970.
Seeds Of Decay begins a dark, bluesy plod into hell, And builds into a massive, killer fucking song. Great groove to it, and crushing riffs.
The Woods Are Waiting is a fantastic instrumental piece, absolutely hauntingly beautiful.
The album closes perfectly with Shadows Haunt the Night. Amazing riff, groove, and lyrics. This album is solid and each song is good. An absolutely amazing piece of work.
Uncivil Revolt July 2018
Dope Fiend — Throne “Consecrates”
A volte penso a quanto sia strana la percezione dello scorrere del tempo applicata alla musica: personalmente mi capita sovente di ascoltare un disco appena uscito, girarmi un attimo, per poi scoprire che in quell'attimo sono già passati quattro o cinque anni e che il gruppo in questione sta già pubblicando un nuovo album. Avrei giurato infatti di aver scritto dei Throne e del loro debutto "Avoid The Light" non poi così tanto tempo fa, ma era invece il 2013, e da allora di acqua sotto i ponti e di dischi sotto il nostro implacabile giudizio ne sono passati parecchi. Ciò non mi impedisce comunque di ricordare la bontà qualitativa di quell'esordio e di essere ben contento che nel successore "Consecrates" le cose siano ancora migliorate.
L'atmosfera dilatata, oscura e opprimente che apre "Sister Abigail" è un valido preludio a tutto ciò che dovrebbe essere un disco che affonda le proprie marcescenti radici nello Sludge, nello Stoner e nel Doom: una colata caustica di riff muscolari e grassi, ritmiche ipnotiche e incalzanti, voci rabbiose, voci sgolate, voci folli, tanto malessere fisico e altrettanto disagio esistenziale. Non mi pare il caso di stilare una lunga lista di nomi ben conosciuti dai più, perché vi basterà sapere che i Throne incarnano una epitome di come tali generi possano essere miscelati in un'unica instabile e micidiale proposta.
Dalla sincopata e velenosa furia di "Lethal Dose" e "Lazarus Taxon" alle pachidermiche e stordenti movenze di "Baba-Jaga" e "Codex Gigas", passando per le alienanti e distruttive forme monolitiche di "There's No Murder In Paradise" e "V.I.R.", i Throne imprimono sul proprio operato un marchio di qualità dimostrante l'ulteriore maturazione delle ottime caratteristiche già evidenziate in passato. L'oculata alternanza di rallentamenti mortiferi e parti più dirette e feroci, di umori lisergici e di atmosfere soffocanti, crea un caleidoscopio acido e fumoso, al cui interno ruotano tutte le possibili sfumature che vanno dal rosso più sanguigno al nero più profondo.
"Consecrates" gode altresì di una produzione di alta qualità, grazie alla quale i Nostri riescono a far risaltare nettamente l'ispirazione che anima un'opera che — pur essendo canonica — riesce a risultare sfaccettata, varia e dinamica. Impreziosito inoltre dal lavoro grafico svolto dal sempre riconoscibilissimo Adrian Baxter, l'album fa lo stesso effetto di un gran cazzotto nei denti. Un disco completo e maturo sotto ogni punto di vista, coscientemente scabroso e venefico, che non potrà che solleticare le più abiette pulsioni di ogni estimatore del genere.
Aristocrazia Webzine July 2018
Ivan Tibos — Aura Hiemis “Silentium Manium”
Felipe ‘Herumor’ V. is quite a known grunter within the Chilean Underground Death Metal scene. He has been, or still is, active in acts such as Projector, Mar De Grises (I truly adore this band!), Ancestral, Abaddon and Timecode. His main project, however, is his solo-outfit Aura Hiemis, which he started in 2004. Solo, yet with guest and session musicians… Throughout the years, Aura Hiemis did record and release three full lengths, an EP and a fabulous split with Ego Depths and Sculptor (also via Endless Winter, by the way). And yes, there was a compilation too…
Anyway, the project returns with its fourth full length studio album, called Silentium maniuM, almost five years after fiVe (which was, once again, and just like the one this review deals with, released via one of those great Russian based Doom-oriented labels, Endless Winter). Most material was recorded by Felipe aka V in late Summer / early Autumn 2016 at The Tower Studio, with assistance of drummer / string wizard Lord Mashit (think e.g. Vinter, Throne Of Evil, Failure, Nocturnal Delirium). The result was mix and mastered as from late 2016 at the Black Sun Studio with Camilo Gomez, known from e.g. Projector. The compact disc is a jewel case edition with a sober yet informative four-page booklet (no lyrics included).
Silentium maniuM brings almost three quarters of an hour of funereal and atmospheric Doom-Death Metal with a timeless and universal approach. Yes, I hear you say: not original in consequence? Indeed, that’s true; but as I did mention in many reviews that deal with this specific kind of Aural Art, being Doom-Death Metal in general, including all its sub-genres or related scenes, originality, progression and eccentricity are superfluous, even superficial and unwanted. Or better, at least this counts as long as the result is satisfying, equalling the high qualitative level of those bands that did already enter the worldwide scene before. Well, let’s say that Aura Hiemis is one of those bands that surely comes close to the purity and inner strength of the scene, despite the many clichés and evident passages. F*ck trying to be original when you can create the better things that are rooted in the essence of Aural Art!
This element gets clear as from the opening introduction, Maeror Demens I. It’s an instrumental piece, based on an electric and an acoustic guitar riff – nothing more than that, actually. But immediately it drenches the listener in that specific dimension of melancho-melodic majesty in the vein of, well, ‘the true scene’. FYI: there are several Maeror Tremens interludes, all of them being an acoustic or semi-acoustic chapter, limited in length, in between the mighty hymns on the album. You like it, you appreciate it, or you do not – that’s up to you. But do not forget that this is part of the concept.
[PS: ‘maeror demens’ are a bundle of poems, written in 2015 by Leonor Dinamarca, a (pretty) poet / painter and prof / master from Chile; her poems did inspire this album’s lyrical concept, but unfortunately the lyrics have not been included in the sober four-page booklet]
The other tracks, the ‘real’ songs, are like the essence of funereally inspired Doom-Death Metal. You have those colossal rhythm section, with ultra-heavy riffs and a massive rhythm support, including harsh guitar lines, excellent basses and pounding, somewhat punishing drums. All this gets brightened by hypnotic and / or melancholic and / or prominent guitar leads, twin tremolo riffing and solo guitar melodies. It is remarkable how firm the importance of those guitar leads are, yet at least as remarkable to notice the grandiose equilibrium in between those leading patterns and the supporting background structures of the rhythm section. Besides, everything gets smoothly and smartly endarkened by elegant synths. These ones are, most of the time, almost unnoticeable, yet of undeniable importance, despite their subtle presence. The vocals, then again, limited in presence, are not as deeply growling, maybe quite in contrast to what you might be trusted with, yet rather wretched and hoarse.
All compositions – the Maeror Demens interludes not included – though Between Silent Seas and Frozen Memories are comparable to those intermezzi – have a certain old styled funereal attitude, especially within the slowest excerpts (not that there is any ‘up-tempo’ piece), characterised by the mesmerizing keyboard lines and dreamy guitar leads. In a sense, there’s a destructive brutality behind the concept, though from self-destructive and grieving point of view, rather than expressed in terms of external hatred or disgust. I prefer those pieces, though being limited in presence, but that isn’t but a personal, and therefor subjective, opinion. Yet seen their intensity and inspirational subtlety, one cannot ignore the marvellous elegance.
75/100
ConcreteWeb July 2018
Francesco Scarci — Throne “Consecrates”
Con incolpevole ritardo, ci arriva sulla scrivania l'ultimo album degli emiliani Throne, ormai datato dicembre 2017 ed uscito per la Black Bow Records. L'etichetta britannica ci ha visto sicuramente bene, mettendo sotto contratto una band di un certo spessore che si traduce nelle note di questo melmoso 'Consecrates'. Dico melmoso perchè l'act parmigiano, ha modo di condensare nelle note di questo loro secondo lavoro, sludge e doom, prodigandosi in uno spesso lavoro di chitarre, che chiamano in causa i primi Cathedral. Notevole a tal proposito l'opener “Sister Abigail” e i suoi super chitarroni che, pur non sfondando completamente nello stoner, evocano un che degli Electric Wizard e dei giri di chitarra più blues oriented che ammiccano ad una versione decisamente più sedata dei Pantera, originale non trovate? Non aspettatevi però le stesse voci della band inglese, qui il frontman sfodera quel suo bel vocione da toro imbufalito in un pezzo che trova comunque conferme nelle successive song. Sicuramente degna di nota è “Lethal Dose”, non fosse altro per quel riffone ipnotico a inizio brano e quei cori puliti che si affiancano al growling possente del bravissimo Samu. La song vede peraltro la partecipazione di Dorian Bones, voce dei Caronte e dei Whiskey Ritual. Lo confermo comunque, i ragazzi ci sanno fare. Non so se sia l'aria di Parma e le prelibatezze che quella terra ha da offrire, ma i Throne si rivelano convincenti e speriamo anche vincenti nella loro proposta, in un ambito dove ormai la competizione sembra essere ai massimi livelli e solo i migliori ce la fanno a sopravvivere. Detto che auspico che i Throne siano tra questi, mi accingo ad ascoltare "Codex Gigas" e il suo liquido flusso sonico che lisergico quanto basta, mi investe con il suo pachidermico incedere. E se parliamo di pachidermia, come non citare la granitica e oscura "There's No Murder in Paradise", song sparata a rallentatore ma che conserva nelle sue linee di chitarra, un'interessante vena blues rock. Questa comunque la ricetta vincente per i nostri, che nelle loro tracce sono abili a intrecciare e miscelare ad arte il groove dello stoner e chitarre più seventies, pur mantenendo la profondità e la potenza del death doom come accade proprio nella quarta traccia che evoca nuovamente i sortilegi dei Cathedral di 'The Ethereal Mirror'. L'essenza doomish della band viene confermata anche in "Baba-Jaga", sebbene suoni ben più canonica rispetto alle precedenti, però l'assolo finale non è affatto male. Anche la più catacombale "V.I.R." ha il suo perchè, anche se alla lunga rischia un po' di perdersi per strada nel suo lento e ossessivo comparto ritmico che ammicca a più riprese allo stoner. A chiudere 'Consecrates', ecco arrivare la riverberatissima "Lazarus Taxon" e il suo classico rifferama stoner a sancire l'amore della band ancora per vecchi classici blues rock. 'Consecrates' alla fine è un buon lavoro che dimostra le grandi doti della band emiliana (seppur alquanto derivative) e prospetta un futuro sempre più positivo per la scena di casa nostra.
75
The Pit of the Damned July 2018
Luca Zakk — Throne “Consecrates”
Blackned doom? È forse questa la definizione più corretta per il sudicio e malvagio sound degli italiani Throne. Dopo il debutto del 2012, “Avoid the Light” fanno passare diversi anni, anni spesi su palchi un po’ ovunque; sono del parere che il palco sia la migliore prova e il più assoluto percorso di maturità artistica, un percorso che ti mette a confronto con il pubblico, con i gusti, con le altre bands, generando un processo di affilamento stilistico, il quale si sente tutto in questo nuovo “Consecrates”! Se il debutto era ‘solo’ un album incazzato con svariati riferimenti a Pantera e Lamb Of God, il nuovo disco conferma ciò che scrissi all’epoca: …una band che potrà evolversi in molteplici forme, trovando personalità ed ulteriore impatto acustico. Ed i Throne non deludono, aumentano la loro dose di alcol consumato volgarmente nei peggiori bar che hanno dato loro i natali e sformano un cazzo di disco pesante, fumoso, arrabbiato, micidiale! Un disco che conduce lentamente, ma violentemente, verso gli inferi. La voce del Benna è più oscura e, senza tanto rispetto, si catapulta con decisione in territori death, con frequenti scream black… senza indugiare nel farsi affiancare dalla presenza maledetta di Dorian Bones dei Caronte come guest sulla graffiante “Lethal Dose”. Lenta come l’agonia “Sister Abigail”. Annullamento della luce e di qualsiasi definizione di fotone con “Codex Gigas”. Malinconica e maligna “There’s No Murder in Paradise”, con un assolo che descrive un senso di tristezza generato dall’affermazione racchiusa nel titolo. Doom ai confini del funeral con “Baba-Jaga”, un funeral affogato nello sludge con “V.I.R.”, mentre la conclusiva “Lazarus Taxon” offre barlumi di melodia, sempre e comunque crocefissa e frustata da riff granitici, lenti, ossessivi e pregni di odio. Loro stessi dichiarano che “Consacrates” è un album antireligioso, maturo, iconoclasta e pieno di energia negativa. Ve lo posso assicurare: hanno ragione… anzi, i sentimenti negativi sono molto più incisivi ed espressi con nuda e letale crudezza.
8,5/10
Metalhead.it July 2018
Eugenio Di Giacomantonio — Satori Junk “The Golden Dwarf”
The Golden Dwarf, secondo full-length dei Satori Junk, è un album molto interessante. Fatto tesoro della scoperta dei suoni Sixties degli Electric Wizard in Withcult Today, i quattro ragazzi milanesi ampliano l’intuizione in direzione melodica. Come a dire heavy/space/doom ma con un cuore. Ed ovviamente con una visione della cosa del tutto personale. Come ci spiegano i nostri, “l’idea principale della band è quella di intrappolare l’ascoltatore in un mondo rabbioso, scomodo e distorto” e ci riescono benissimo, scrivendo canzoni lunghe ed articolate che non disdegnano il tocco di fioretto (vedi alla voce All Gods Die).
Milano, con le sue nebbie ed i suoi fumi (immaginiamo non solo delle fabbriche!) deve essere stata fonte di ispirazione principale, dove la realtà urbana condiziona direttamente il vissuto di Luke Von Fuzz , Chris, Lory Grinder e Max. Ne esce fuori un sound che fa del riff il segno del disagio, ma anche del riscatto e della ribellione. Molto vicini a Sons of Otis, Comacozer e Monkey 3, i Satori Junk percorrono la stessa strada dei connazionali Kayleth, Black Capricorn e Ufomammut: spazio profondo e chitarre micidiali.
Le canzoni di The Golden Dwarf risultano scorrere una dentro l’altro come una sorta di concept album, dove chiude la title track che fa del Sabbath nero il vero punto di riferimento del gruppo, prima di abbandonarsi alla cover di Light My Fire: allucinata, pesante e liquida, lunga fino a undici minuti. Satori Junk: accendete il bong.
7/10
Perkele.it July 2018
Martino Razza — Throne “Consecrates”
Dall’attuale realtà doom/sludge metal del nostro territorio arriva l’ultimo full-lenght dei Throne, che, è il caso di dire, “consacra” la band alla maturità artistica, alzando ulteriormente l’asticella rispetto al già ottimo precedente Avoid the Light del 2012. I quasi cinque anni di distanza dal primo full-lenght della band sono valsi l’attesa. Un miglioramento totale è avvenuto sotto ogni aspetto proposto della band di Fidenza, e la conferma si ha già dal primo ascolto di Consecrates, secondo full-lenght uscito il 9 dicembre 2017 per la prestigiosa Black Bow Records e la russa Endless Winter, quest’ultima oltretutto non estranea al fascino italiano, avendo già accolto tra le sue schiere band come Satori Junk, Suum e Premarone.
Azzeccato punto d’incontro tra doom e sludge metal, Consecrates si apre con “Sister Abigail” che inesorabilmente trascina l’ascoltatore nella dimensione oscura che verrà dispiegata per tutto l’album, un presagio di sventura dato dall’ipnotica chitarra che presto verrà raggiunta dalla completezza della band con la stessa ferocia di un pugno ben assestato sulle gengive. Appunto al suono va una nota d’encomio. Nonostante il fruitore navigato del genere sia già abituato e più che viziato dalla qualità e dalla ricerca dei suoni che le uscite, specialmente degli ultimi anni, hanno proposto, i Throne stupiscono con una produzione di alto livello sia nel mix che nel mastering, e a monte con dei rig che hanno assicurato alla band un suono mastodontico nelle parti ritmiche ed intossicante, “trippy” nelle lead e nei soli delle chitarre di Mirko “Black Crow” Lavezzini e Riccardo “Malos” Carrara, che lasciano ipnotizzati ed in balia dell’oscurità scaraventata addosso all’ascoltatore, complice la combutta tra distorsioni omicide e riverberi abissali. Le fondamenta del lavoro sono solidamente stese da una sezione ritmica impeccabile, composta dalla batteria marziale ed implacabile di Emanuele “The Hurricane” Dughetti ed il basso travolgente e marmoreo di Enrico “The Pharmacist” Emanuelli.
Assolutamente interessante l’inserimento in “Lethal Dose”, brano che si avvale della collaborazione di Dorian Bones (Caronte), del contrasto tra voce melodica, pulita e la imperiosa voce urlata. Altra gradita sorpresa vocale del brano è l’accenno di canto mongolo che tende alla diplofonia, stilema tipico oggigiorno che richiama così, tra gli altri, i canadesi Dopethrone che avevano già proposto questa feature in maniera più distesa ed evidente. Da questi ultimi la band mutua un songwriting dinamico, nonché un riffing spietato e nefasto che riesce ad essere comunque pieno di bluesy groove, riff cantabili e catchy che difficilmente lasceranno la testa dell’ascoltatore in breve tempo. “Codex Gigas” propone un riffing inesorabile e mette ulteriormente ben in mostra le qualità vocali di Samuele “The King” Benna, la cui versatilità è dimostrata spaziando dalla voce viscerale urlata proposta per la maggioranza dell’album, passando per lo scream ad arrivando ad un ottimo guttural quasi intellegibile. “There’s no Murder in Paradise” fa da eccellente collegamento tra la prima e la seconda metà del lavoro, esibendo al massimo del suo potenziale ciò che viene esibito anche nelle successive quattro tracce, ovvero un devastante connubio tra quel tipo di sludge metal furioso riconducibile ad High on Fire e doom metal puro dalle atmosfere più esoteriche. Appunto sia in “Baba-Jaga” che in “V.I.R.” questo connubio genera un’atmosfera marziale ed imperitura, un luogo fuori dal tempo in cui non vi è alcuna vicendevolezza tra luci ed ombre in favore del dominio di quest’ultime. Apice di frenesia iconoclasta è l’ultima traccia “Lazarus Taxon”, mid-tempo inesorabile che sfocia nelle già citate venature di puro doom metal.
Questo secondo lavoro porta la band del parmense verso mete più oscure, suggerite sicuramente dall’esperienza e dalla piena consapevolezza della propria potenza distruttiva, magari maturata in questi cinque anni trascorsi dal primo lavoro, che hanno comunque visto Throne molto attivi nella scena live, calcando i palchi insieme a nomi di assoluto rilievo come Weedeater, The Secret, Forgotten Tomb, Ufomammut e Caronte. Consecrates è summa del moderno, rabbioso doom/sludge Metal che merita ulteriore spazio ed attenzione nel panorama internazionale oltre che in quello italiano, di cui la band di Fidenza può fieramente esserne porta bandiera. Traccia preferita: “There’s no Murder in Paradise”.
8.0
Grind on the road July 2018
Sergio Vinci — Throne “Consecrates”
Solo adesso giunge in redazione questo secondo album dei parmensi Throne, e lo dico subito: questo gruppo si colloca tra le cose migliori che io abbia ascoltato in ambito sludge-doom negli ultimi anni! Un disco che presenta una band compatta, convinta, assolutamente competente nel genere che propone e che ha il grandissimo pregio di unire alle indubbie qualità strumentali e compositive, anche una attitudine sporca e occulta che si respira nei solchi marci e melmosi di questo disco.
Si parte con "Sister Abigail", brano che riporta in mente tutti i grandi nomi di questo genere, forti spallate in stile Down e atmosfera sinistra rimembrante per molti aspetti gli Electric Wizard, ma anche una spruzzata di EyeHateGod , e una grandiosa prestazione da parte delle due chitarre suonate da Maloa e Lavo, due individui che macinano riff a profusione, su cui si appoggia una batteria deflagrante e una voce brutale al punto giusto. Si prosegue con "Lethal Dose", che ospita Dorian Bones alla voce (Whiskey Ritual, Caronte), che si apre malefica e doomy, dotata di un alone opprimente che dominerà durante tutto il brano, come una sorta di sensazione di pericolo imminente, di paura, di disagio...E se il doom non trasmette questo non è doom, direi. Finale lisergico sempre più straniante, da pelle d'oca, e una ripresa di intensità successiva dove entra in ballo il buon Dorian Bones con la sua ugola calda e perfettamente adatta a descrivere scenari orrorifici e perversi. Bellissimo brano.
"Codex Gigas" prosegue sui binari della pesantezza, ma ci aggiunge vaghi influssi blueseggianti che ovviamente sono parte integrante di questo stile di rock e metal (ho sentito echi di Kyuss, forse?), ma in questo caso i riff belli grassi di chitarra risultano avvolgenti in quanto più melodici, mentre la batteria scandisce i vari passaggi con botte da orbi sui tom e stop and go davvero micidiali.
"There's No Murder in Paradise" si esprime in più di otto minuti di durata, aperta da un basso distorto davvero inquietante, per poi esplodere con una pesantezza pachidermica notevolissima. Prova vocale da parte di Samu da manuale, che urla sia in growl che scream. Abbiamo anche vaghi influssi black metal nel riff portante nella prima parte del brano, e la voce in scream accentua questa componente. In ogni caso la band si mantiene "cauta" in fatto di bpm, andando così a creare un connubio maleodorante di doom, sludge e piccole tentazioni black.
"Baba-Jaga" è dannata come le altre e forse di più, e sarò forse io un po' deviato, ma continuo a sentire piccole inflessioni "blackeggianti", o comunque bagliori di nera luce che prendono l'ascoltatore e lo trasportano in questo trip sonoro che dimentica spazi e misure, e dove vince la perdizione!
Ancora palate da orbi e demoni assortiti con "V.I.R", mentre in chiusura abbiamo la ottima "Lazarus Taxon", sludge-doom-stoner suonato alla grande, splendido riassunto di un disco che assolutamente non può passare inosservato. E soprattutto ascolto obbligato per gli amanti di queste sonorità, per gente che non è mai sazia di nuova oscurità, di riff heavy, malevoli, dissonanze, voci da oltretomba, batteria che picchia le pelli come per sfondarle.
Disco assoluto, un monumento di buio e disagio da custodire gelosamente nella propria discografia.
85/100
HOT MUSIC MAGAZINE June 2018
Eli Elliott — Suffer In Paradise “Ephemere”
While I was quietly waiting for the warmer months I was given this piece of funeral doom to digest and feeling somewhat despondent at the time decided to play it and crank it. Almost immediately afterwards the rain finally came and cleaned up the remnants of winter. You can imagine that it was the essentially the perfect atmosphere to experience a new funeral record. Suffer In Paradise play a very well written style of funeral doom that is sure to please but unfortunately doesn’t quite hit the mark when it comes to longevity.
First off, I was fortunate enough to listen to this slab of funeral dirges when the setting was completely perfect. I mean, how often do the stars align to create the perfect listening environment for music of any kind? Thus my initial reaction to it was very high and like any good layered Funeral doom had to be digested and listened to again and really dissected. The very nature of the Funeral crawl practically begs for it… and though 'Ephemere' is very well thought out and written I really got the feeling that it is very conventional at its core. The keyboard melodies are down trodden and there is a nice mixture of some tremolo picked melodies and the slower single note drones we’ve all come to expect but it just feels like something is… just a little off?
And after really sitting down and listening for it I think I’ve found it. A cursory glance at the members reveals the band has a programmed set of drums and although they at first glance are very well thought out I get the feeling that a real drum performance, whether sampled afterwards or not, would really liven things up… And yes I can hear you screaming "But Eli! It's Funeral Doom, it's supposed to be like that!" but if you start listening for it you’ll see the sort of things I’m talking about. For example, listen to the drums during the start of 'The Swan Song Of Hope': they feel almost lost like they needed a drummer to really fill that spot up. I even notice during some of the double bass flourishes (or even during the blasting section in the same song) where things are supposed to be elevated in intensity that the intensity seems to not quite make it there. You can get away with this much easier at higher tempos , with more chaotic styles but things like this can really bog down a Doom record.
But not all is lost!I have to mention that the rhythm guitars are nicely produced hammering out the heavy and cleaning up just enough during both the single note melodies and the tremolo melodies, while the bass is just heavy enough to thicken up the rhythm sound and have its own voice during a fewer of the sparser moments. Also, the vocals fit the style like a glove though a bit more inflection or style variance would be welcome. I also want to give a shout out to some of the acoustic guitar work during 'The Wheels Of Fate' - not only is the melody hypnotizing but is very traditional Russian sounding. Nice! Though again, the four count drum programming directly after kills the build up. So close! The keyboards carry much of the melody in the songs and just a tad better sample choice for the Choir sounds would have really helped them along. Like there is one point that I'd swear to god I was playing a high quality SNES game (not in a bad way! Love me some SNES). All in all though, nicely done! It’s a bit strange sounding at first but you get used to it.
Songwriting wise though these guys obviously know the genre well. They hit all the right tropes but really play it safe. There is one sort of Death Metal-inspired riff that crops up during 'The Wheels of Fate' that really hits at the perfect time and I really wish the song would have ended on it, since that is the only real build up that hit the mark for me. It’s as though they forced themselves to end on a slower tempo just because the genre is like that. 'Ephemere' just plays it too safe for the majority of its hour run time and I can’t help but think that adding a live drummer would have really spiced things up as far dynamics and longevity go. Like everything is just so organized to a tempo track that it just begs to break out a bit. Not to mention that some better sampling could have brought that dynamic edge out a bit more.
And that’s really the story of 'Ephemere' . It’s good and obviously was crafted with a lot of love of the genre but really could use a bit more adventure. Honestly I think a lot of the dynamic range that this could have had is killed by those damn programmed drums. Will this hit all the right feel during a storm? Will the rhythm guitars crush and suffocate at high volume levels? Yes to all the above, but it just doesn’t stick to you on repeated listens. Which is a shame since it really could have. I get why people use programmed drums since not only is it a hard instrument to record since you would absolutely need a good recording room and the resources to capture all the parts but separating the pieces of the drum kit to get them to sit in the mix properly can be a nightmare sometimes. Thus, things get expensive quick. That being said though, they bring so much more life, dynamics and presence that only a drummer can replicate. Get these guys a drummer!!
6,5/10
Doom-metal.com June 2018
LordPist — Premarone “Das Volk der Freiheit”
Quando mi hanno detto che qualcuno era riuscito a dedicare un disco doom metal all'improbabile parabola politica e mediatica di Forza Italia (e del Paese in generale), non ero sicurissimo di aver capito bene a cosa mi trovavo davanti. Di solito, roba come il trash televisivo e umano è tema più comune nel rock alternativo e generi simili, come avevamo visto con la mai troppo citata Macabra Moka l'anno scorso. "Das Volk Der Freiheit" dei piemontesi Premarone tratteggia esattamente quello che pensate, il Popolo della Libertà in tutto il suo splendore, prima che si reincarnasse nell'attuale Lega con il suo armamentario di aggressività e locura.
Già dalla copertina si respira un'aria da fine di un impero, come in effetti è stato per la corte dei miracoli berlusconiana, una fine che non è stata una vera e propria fine, con lo sguardo nel cielo che in qualche modo lasciava già presagire un sequel. I titoli e i testi sono a dir poco meravigliosi e, con perle come «Tuniche Purpuree» o «Olgettinae», richiamano tutto il bagagli(n)o di lucida follia che ha segnato gli ultimi decenni in Italia, a partire dall'azzeccatissimo preludio con Mani Pulite. C'è spazio per qualunque cosa, dal Grande Fratello ad Amici, da "Beautiful" alle televendite e ai salottini urlanti della TV.
L'aspetto meraviglioso, però, è che tutto questo carrozzone è inserito in un'oscurissima cornice doom intrecciata con stranianti elementi drone e psych, in cui campionamenti e registrazioni sembrano risuonare in un arido panorama alla Fallout, portatori di una gloria ormai andata ma che in qualche modo resta con noi. I quattro hanno fatto un'operazione estremamente competente dal punto di vista musicale, a sostegno di un concept francamente mai sentito in questo contesto (notevole l'inizio praticamente post-rock di "II Parte: D. F."). Il disco si divide in due lunghe suite da oltre venti minuti ciascuna, oltre al succitato preludio e un interludio, e possiamo interpretarlo come un'opera teatrale o un film, non tanto diverso dalla vita politica ultra-mediatizzata che ormai sembra aver travolto l'intero spazio sociale.
Provate a immaginare un incontro tra Immanuel Casto, Hate & Merda e Ufomammut: vi avvicinerete molto al lavoro messo in piedi dai Premarone, che con "Das Volk Der Freiheit" hanno fatto un bel salto di qualità rispetto al pur pregevole esordio del 2015. Complimenti anche alla Endless Winter che, non so quanto consapevolmente, ha dato alle stampe qualcosa di cui stranamente c'era davvero bisogno. Non ci resta che «scrivere il proprio nome sulle piastrelle di un cesso in autogrill», oppure no?
Aristocrazia Webzine June 2018
Allyson Kingsley — Satori Junk “The Golden Dwarf”
From just the album cover, I knew this Satori Junk’s The Golden Dwarf was going to be a unique piece of work.
Formed in Milan, Italy, in 2012, this marks their second release, and it’s an eccentric work that is memorable and difficult to classify. Like a rolling black mist, the music flows around your senses and is a mutant hybrid of doom, blues, ’70s, and psychedelia.
“All Gods Die” instantly reminded me of Me and That Man. Heavily infused with blues, it is an ass-kicking composition. “Cosmic Prison” strives to be different, embodying haunting beauty and a decidedly unique voice in the dark. “Blood Red Shrine” sounds like the backdrop of an underground ’80s gore movie; disturbing and dark with use of distortion to add twists in the road. A cover of The Doors “Light My Fire” with heavy, doom-style elements was reminiscent of early Hawkwind … nicely done.
I will always applaud a band that fuses different elements to create their own little microcosm. Satori Junk brave new territory.
Skullsnbones June 2018
Ivan Tibos — Nordlumo “Embraced By Eternal Night”
Severomorsk is a city in the far North of the European part of the Russian Federation, on the Kola peninsula, and quite close to the not-that-unknown city of Murmansk. It’s also home to Nordlumo, a joyful outfit of a guy called Nordmad, who started this project quite recently. Evgenyi (real name of Nordmad) wrote, recorded and released six lengthy tracks (the total running time clocks about seventy-seven minutes) in very early 2016 via his own digital channels. Then Endless Winter, one of the most interesting Doom labels from Russia, showed up, and this label decided to have that material released on compact disc too. The beautiful (!) cover artwork is based on the original one, just slightly improved, and the album comes with a four-page booklet, which contains some of the lyrics (in English). Oh yes, pay attention, for this re-release is limited to an edition of 300 copies – and I have mine already…
What Nordlumo bring has nothing renewing or original at all. this is not a negative aspect, believe, because of the quality – see further. About the lack of originality I will not spend any time or energy, for it isn’t but an otiose waste of time to go deeper into that matter. F*ck originality, hail to quality!
…and this brings me quite easily to the essence of Nordlumo’s debut Embraced By Eternal Night. Opener The Autumn Fall immediately shows the greatness of this album. It starts with a melancholic keyboard introduction, soon joined by typifying yet perfectly handled instrumentation: a truly monumental rhythm string section (bass and guitars), melodious leading guitar parts, slowly pounding yet intense drum patterns and the melancholic sound of synths at the background. Slowly and repetitive, this heaviness crawls further, weaving an impenetrable web of inertia and tardiness. Besides, the excellent sound quality empowers this massiveness. The production is simply top-notch, full and perfectly mixed, and all individual instruments are equal in presence and audibility. Great instrumental hymn to start this album with!
As from Devotion on, the second track (which lasts for 23:40 minutes), we get really started! Shooting off with floating keyboards, those hammering drums and a truly fine bass line, we get soon immersed by another not-original-at-all but simply fabulous heavier passage, defining melancholy, grief, anger, pain and despair in a sonic way. Here’s where the vocals join too for the first time. And indeed, even the ultra-deep growling grunt of Nordmad seamlessly fits to this Aural Art. Divided over the whole album, the vocals are rather infrequently presented, but when proposed, it’s a true ‘pleasure’ to ‘enjoy’ (‘pleasure’ and ‘enjoy’ in such review; it’s almost a cynical statement). In a piece like Scripts you might also uncover some whispered spoken words, by the way (performed by Mari Khokhlova, who wrote the lyrics for Dreamwalker too, which includes two short passages with a ‘clean’ voice – Ivan). Other ingredients, not uncommon but, once again, performed flawlessly, are, for example, xylophone-alike synth passages, or acoustic and semi-acoustic guitars; you know what to expect, don’t you. Devotion and all other hymns are divided into organically cohesive chapters, tied by different intermezzi of acoustic or synth-based passages (of ambient, funereal or gloomy nature), by piano, or via compelling twin leads and solos. The guitar leads, multi-layered, are for sure the main structure of this album, undeniably meticulously supported by the aforementioned rhythm instrumentation (keyboards, rhythm guitars, bass guitars and drums / cymbals).
Worth mentioning, evidently, is the track Weathered, which is a cover by (sadly defunct) Colosseum, taken from their debut full length, Chapter I: Delirium. It is an extremely faithful reinterpretation of that song, reminding me a lot of the original one, and at least as spectacular in performance. Cool! (cool as in ‘great’ or ‘well -done’, as in ‘freezing’, ‘icy’, ‘Arctic’…)…
For fans of Colosseum, Abysmal Growls Of Despair, My Shameful, Shape Of Despair, Monolithe, Grimirg, Evoken and the likes…
85/100
ConcreteWeb June 2018
Ivan Tibos — Premarone “Das Volk der Freiheit”
Premarone are an Italian Doom band, originating from the Piedmontian region (at the French border), who took the audience by surprise with their 2015 debut album Obscuris Vera Involvis (Nicotine Records). Three friends started jamming together, and when a fourth human being joined the crew, Pol (bass), Ale (drums and percussions), Mic (synths, Theremin, Monotron recorder) and Fra (vocals and guitars) continued as Premarone. I somewhere read that they were named after a very small village somewhere within the Alpine mountains, by the way.
The members are all influenced by Progressive and Rock Music from the Seventies and Eighties, and that did surely influence their play under the Premarone moniker. The quartet’s mutual efforts are rooted within the most psychedelic basement of Doom Metal especially, and as it was for this band’s debut album, it goes as well for the sophomore full length: psychedelic Doom Metal you’ll get once again!
The introduction somewhat confuses me, for this short instrumental piece called Preludio: Mani Mulite sort of combines progressive rhythms with groovy melodies and cosmic-psychotic neurosis, quite modernised in approach. But soon we’ll get submerged into the frenzy madness of forty-fifty years ago.
I Parte: D.V. (‘das volk’) is a very lengthy piece, clocking almost thirty minutes, and divided into six chapters. Indeed it brings that druggy Sludge / Stoner / Groove stuff à la Electric Wizard, Unearthly Trance, Pentagram, Coven, Ufomammut, Sleep and the likes, with quite some elements in the vein of Saint Vitus and Witchcraft, and from time to time even the attitude of Jethro Tull, Led Zeppelin or Hawkwind. The whole journey is a weird one, with several changes in structure and tempo – though the latter remains balancing in between all kinds of ‘slow’ and ‘heavy’. It is a fine element to notice that there is that variation in between more sludgy parts, being extremely intensive, old school oriented ones with that psychedelic attitude, Stoner-oriented fragments with a touch of modernism, traditional Doom excerpts that pay tribute to the roots of the scene, and chapters that refer to the late Sixties that even include those typifying organs and mushroomy guitar leads. All this gets collected in one single track, without losing control on the dynamic coherence that is so hardly needed. Fine! The complexity of simplicity, it is an experience beyond imagination…
Interludio: Interferenze (8:23) is a collage filled with noises and samples, taken from different sources, like a cacophonous amalgam, brain-twisting and frenzy. It has nothing to do with Doom Metal or Rock whatsoever, but it oh so fits to this concept!
II Parte: D.F. (‘der freiheit’), which clocks twenty minutes, connects seamlessly to the interlude. Here too, like in the first official part, you can enjoy a chaotic yet structured mixture of different angles. Within the heavier parts, Sleep, Thou, EyeHateGod, Ufomammut and Grief come to mind, with acts like Pentagram, Spirit Caravan, Pink Floyd, Warhorse, Thin Lizzy, Led Zeppelin or High Tide coming to mind within the rather hyaline chapters. This composition is much heavier and ‘complete’ that I Parte: D.V., I think, for it bears much more coherence, and for it is so monumental in performance, and so dynamic in execution.
75/100
ConcreteWeb June 2018
Bart M. — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Satori Junk was founded in Milan in 2012, their goal is to draw the listener into a different dimension with their fuzzy riffs and classical seventies influences. After a demo and several live performances they released their eponymous, first album. And finally its successor has arrived, and it is called 'The Golden Dwarf'!
After the intro the album sets off with the desolate beginning of 'All Gods Die', after which Satori Junk creates a heavy, psychedelic doom atmosphere. One heavy riff after the other is sent into the listener's brain, all the while guided by the melancholic vocals of Luke Von Fuzz. With these riffs and vocals, and a bunch of unpredictable sound effects, you will very soon get the idea that you have been transported into some kind of wonderland, the kind that Lewis Caroll created for Alice decades ago. The heavy sounds keep on coming and make you feel totally at ease as you plunge down into the rabbit hole, even though the organ makes everything a little awkward and spooky. And so we move down, deeper and deeper into the abyss, but at no point do you feel alarmed because it all feels so good. So comfortable. And warm. 'The Golden Dwarf' is a supernatural adventure with a pleasant surprise waiting around each corner, an unexpected twist that gives this story an extra dimension. These are lengthy songs, but I assure you that each bit is interesting and captivating.
Eventually, after a long and confusing journey, we arrive at 'The Golden Dwarf', a beautiful song that is clearly based on Black Sabbath's 'Black Sabbath', but Satori Junk manages to give an even doomier and darker vibe to their rendition of this classic song. I would even say creepy because of the added synthesizer effects. After this initial part we are cast into another downward (or is it upward? I shouldn't have drunk that potion!) spiral that manages to take all the stoner, doom and Sabbath ingredients and make it into something original. This sounds a lot like a Black Sabbath medley, and a very good one at that!
The album closes with a cover, The Doors' 'Light My Fire'. I have heard some pretty decent covers lately but every once in a while you will find one that surpasses the original. Oh dear, what is he saying? Yes, it happens, and this one surely is one of them. Maybe it is because of my preference for slow, heavy music or perhaps I have heard the original a couple times too many, but most probably it is because Satori Junk gives its own, wonderful twist to this tribute. I have no idea what the subliminal message at the end says, but it is probably something along the lines of: "It's fun to take a trip."
'The Golden Dwarf' is what you get when you take the virgin Abysmal Grief and have her conceive a baby with an experienced guy like Electric Wizard, while during the pregnancy taking copious amounts of LSD. While listening to Acid Witch.
90/100
Lords of Metal May 2018
Brandon — Satori Junk “The Golden Dwarf”
A few years after their self-titled full-length album, Italy's Satori Junk have once again emerged from the black of night to lure listeners into their den of hazy psychedelic doom with their new release "The Golden Dwarf". This time around there's a little less fuzz (especially around the vocals) to further expose the naked, unnatural horrors that await you. After a spoken intro the music starts all bluesy and ominous like a film noir before descending into the smoky underworld of stoner-doom with eerie acid-inspired keys over the top. Satori Junk absolutely nails the 60s/70s organ sound - something that lesser bands might use as a crutch - but even underneath its electronic wailing the riffage is heavy and can get thick as fuck as though you're wading through a horde of ghosts that are trying to drag you to the grave. There are a few subtle goth rock twists to the typical doom formula as well - I hear a touch of Bauhaus breaking through on tracks like "Cosmic Prison" and "Death Dog". The title track is full-on breath-taking terror from the get go, doom metal soaked in a chilling, gloomy atmosphere, but then halfway through it bursts into frantic rocking fury - but after all the energy is spent the song falls back into slow doom for just a minute before dissolving as the breathless instruments hopelessly struggle to stay alive. And then the final track comes in with a booming organ introduction that will blow you away - the heaviest cover of The Doors' "Light My Fire" that we will probably ever hear. If you thought that Type O Negative had already brought this song to the dark side then think again because Satori Junk kills all of the song's upbeat swing and instead creates a downtrodden doom with new keyboard and guitar solos that seem to dance and scream with a sick delirium. The whole album feels like a fever dream that takes place in a haunted mansion - something that will give you chills for weeks to come. If you're into doom that's horror-inspired, key-heavy, and/or psychedelic Satori Junk have really put together something special with The Golden Dwarf.
Super Dank Metal Jams May 2018
Massimo Argo — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Seconda prova sulla lunga distanza per i Satori Junk, gruppo milanese di doom psichedelico e stoner, i quali con questo lavoro si migliorano non poco, proponendosi come uno dei gruppi italiani più interessanti nell’ambito.
Fin dalla bellissima intro recitata si intuisce che sarà una lunga discesa verso gli abissi che abbiamo creato e che culliamo nelle nostre teste. Partendo dallo stile che hanno sempre portato avanti, ovvero musica pesante con tastiere aliene, i Satori Junk rendono maggiormente pesante il loro suono e anche più acido, per lunghe cavalcate sotto piogge sporche, corse sotto relitti di imperi troppo grandi per cadere, e ancora attraverso volti sfigurati da nuove droghe. Quando poi spunta il theremin, la magia dei Satori Junk è ormai compiuta e siete catturati, così ascolterete il disco più e più volte, perché ha un fascino magnetico e maledetto, come tutte le cose veramente belle e gustose. Le canzoni sono tutte di ampio respiro e si fanno apprezzare per la loro tenebrosità ed acidità. Ciò che fa risaltare i Satori Junk rispetto agli altri gruppi è questa commistione di tastiere quasi space rock con un suono corrosivamente lento, in una miscela difficilmente rintracciabile in altri lidi. Come detto tutto il lavoro denota un notevole miglioramento rispetto al già valido primo disco del 2015, perché qui siamo proprio su un altro livello, con i Satori Junk che mostrano una maggiore consapevolezza dei loro mezzi proponendo una formula arricchita. Chiude il disco un’incendiaria e acidissima cover di Light My Fire dei Doors, ma il vero godimento è prima.
7.5
Iyezine May 2018
Mourning — SuuM “Buried Into The Grave”
Il Doom Metal è un mondo che accomuna e mette di buon umore molti di noi della redazione. Da sempre il suo underground è stato vissuto in maniera più genuina, ma negli ultimi anni, anche per la vera e propria esplosione legata al filone contaminato dallo stoner, ha iniziato a subire anch'esso una certa commercializzazione. Ovviamente tale termine è da prendere con le pinze, è però innegabile che band clone e produzioni trite e ritrite siano state partorite in gran numero, forse più di quanto ci si potesse immaginare. Capita così che il Doom divenga una moda, tuttavia non è sicuramente il caso dei nostrani Summ.
La formazione vede coinvolti personaggi che si muovono nella scena metal italica ormai da tempo immemore, due di questi li abbiamo anche incrociati più volte: il chitarrista Painkiller (Fangtooth, Occultator ed ex Exhuman) e Marco "Wolf" Veraldi (Bretus, A Buried Existence, Land Of Hate ed ex Uranium 235 e Zora). Si tratta di uomini che sono profondamente immersi in questo mare di suoni, oscurità, dolore e orrore.
Non starò a elencare nomi, referenze e possibili accostamenti, vi basterà aprire il lettore e inserire il debutto "Buried Into The Grave" (una partenza immediata con il botto più grosso!) per tirare subito in ballo l'Inghilterra, la Fennoscandia o gli U.S.A. Sarete poi voi a scegliere a quali santi affidarvi, rimanendo consci del fatto che i Suum suonano il Doom che amano e conoscono a menadito, evitando di cadere nel tranello delle becere scopiazzature.
I trentacinque minuti dell'album abbracciano il panorama in maniera ampia e avvolgente, mostrandosi classici, epici e rocciosi, forti di una solida e matura devozione nei confronti di chi ha creato il sentiero da percorrere. Al tempo stesso mostrano una prova compositiva ed esecutiva di spessore, nella quale emergono i bei riff di Painkiller, la compattezza della base ritmica fornita dal bassista Marcas e dal batterista Rick, mentre Marco imprime ai pezzi la dovuta forza dietro al microfono, tingendoli talvolta di atmosfere spettrali, altre ipnotiche. Insomma i Suum non appartengono a quella cerchia di gruppi da copia e incolla, anzi come direbbe qualcuno ci mettono la faccia e tre pezzi esemplari come "Tower Of Oblivion", "Black Mist" e "Shadows Haunt The Night" stanno lì a dimostrarlo.
"Buried Into The Grave" si nutre della parte più intima, tradizionale e primordiale del Doom, rimasta incastrata nel sottosuolo in quanto adorata prettamente dai veri e propri patiti del genere (forse solo la corrente funeral è altrettanto selettiva nello scegliersi i fedeli ascoltatori). I Suum si trovano perfettamente a proprio agio in questa nicchia accogliente, ma viva e pulsante anche nel 2018. Buona la prima!
Aristocrazia Webzine May 2018
Simone Vavalà — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Il quartetto stoner/doom milanese torna tra noi con il secondo full-length, che conferma quanto di buono sentito nell’omonimo esordio e offre anche parecchi spunti di interesse in più. Metabolizzato ormai da tempo l’ingresso in formazione di Max, il nuovo batterista già ben rodato dalle numerose esibizioni live della band, e rinforzato sempre più il doppio ruolo di cantante e ‘maestro di effetti’ di Luke, i Satori Junk trovano con “The Golden Dwarf” la piena emancipazione dall’onorevole ma abusata posizione di cloni degli Electric Wizard; spaziando – è il caso di dirlo – verso sonorità seventies robuste e un approccio da colonna sonora per film mai scritti decisamente apprezzabile. Gli stratificati riff sciorinati dal chitarrista Chris avvolgono in atmosfere fumose e trasognate, che passano dall’evidente passione per la psichedelia d’antan al fuzz spaziale (“All Gods Die”), strizzando anche l’occhio agli eterni maestri Black Sabbath, senza arrivare a imitazioni pedisseque; in “Cosmic Prison”, per esempio, dove la voce effettata riporta però al modello di certo “nuovo” doom inglese, o in certi effetti sonori che facevano capolino su “Vol.IV”: come all’inizio e al termine della (relativamente) breve ma conturbante “Blood Red Shine”, un vero e proprio duello tra gli strumenti su cui primeggia il basso di Lorenzo, o nella sezione centrale della maestosa suite “Death Dog” (peraltro collegata con l’altrettanto lunga titletrack a seguire), perfetto riassunto del loro sound. Che non ha forse l’originalità assoluta dalla sua, ma è mirabile nella sintesi delle fonti di i(n)spirazione. La menzione finale è per il ruolo rilevante del sintetizzatore e del theremin, che come detto trovano sempre più peso; assieme all’evidente gusto per le sonorità space-rock, anche il fantasma di Ray Manzarek aleggia spesso sulle tracce, e non a caso chiude l’album una spettrale e stravolta restituzione di “Light My Fire” dei The Doors: magari abusata, ma meritevole in questa riscrittura che pare l’incontro tra i primi Ghost (almeno per la stralunata linea di synth) e il grasso cosmico dello stoner più drogato, con un valore aggiunto nell’assenza di inutili tentativi di imitare l’iconica voce di Morrison. La via italiana al doom si conferma insomma vivace e di qualità, e i Satori Junk sono ormai più di una semplice promessa.
7.5
Metalitalia May 2018
Round Trip — Satori Junk “The Golden Dwarf”
The theremin Doom masters are finally back to unleash a new beast, the “Golden Dwarf”. If you’re familiarized with Satori Junk’s work, you probably already know how downtuned and heavy they sound, masterly dominating the art of producing spooky Doom Metal. With this sophomore record, the quartet, featuring Luke Von Fuzz ( Vocals / Synth / Keys / Theremin/ Flute ), Chris Guitars / Analog Synth / Sequencer ),Lory (Bass) and Max (drums), explores and rediscovers the depths of their sound, recurring to new directions and influences. Comprising almost one hour of sinister, scuzzy and catchy tunes, "Golden Dwarf” simply delivers a chilling experience, suitable for any horror doom fan and long songs apologists.
The beloved fuzzy & heavy riffs still perfectly merge and unfold altogether with the theremin sounds, giving the base to mind tripping solos. The slightly reverberated vocals tend to enhance the slow paced rhythms, accompanying flawlessly the grooves throughout the songs. Even when it gets quiet, it doesn’t really get that quiet, due to all these menacing effects and eerie ambiances going around and entertaining your brain. This couldn’t be a Satori Junk album if there wouldn’t be time for a faster couple of riffs, even if they are a minority throughout the album, happening on tracks like The Golden Dwarf or All Gods Die. There is even time for a The Doors’ cover, with “Light My Fire” becoming a way more doomier that we’re used to know it.
Round Trip May 2018
Steve Howe — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Satori Junk new album The Golden Dwarf didn't grab me at first when I originally listened to the album and that's perhaps down to the two opening songs - Intro and All Gods Die. Intro opens with a standard audio soundbyte about the perils of modern environmental issues. Second track - All Gods Die - is a subdued seventies Psych/Prog Rock affair that has moments of heavy rock and doom based sounds. The whole flow of this song and album feels influenced by Faith No More.
Satori Junk change their sound at so many different parts of the album that it sometimes can be very hard to understand what is going on. I admire Satori Junk's willingness to experiment with their sound and leave the listener questioning what they are listening to. The Golden Dwarf has a sinister psychedelic vision and each song drives you further into the dark abyss that Satori Junk create on the lengthier tracks such as Cosmic Poison, Blood Red Shine, Death Dog, The Golden Dwarf and their superb cover of The Doors classic song - Light My Fire.
The majority of these songs run between to ten minutes and fifteen minutes in length. The whole key here is sonic experimentation with heavy distorted guitars that have an Alternative Rock/Metal approach to them. I apologize for bringing up the Faith No More influence again but I feel lead vocalist Luke Von Fuzz is heavily inspired by Mike Patton. I'm kinda OK with this as it beats all the Ozzy Osbourne/John Garcia inspired vocals I've heard over the years. This may sound like I don't rate the album at all. However, I actually rate this album very highly. As it's a gloriously heavy and experimental Doom/Sludge Metal affair.
The psychedelic glitch based sounds merged with the Doom/Sludge Metal riffs allows Satori Junk to create their own twisted unique sound especially on songs such as: Cosmic Poison, Death Dog and The Golden Dwarf.
I haven't a clue what the whole album means as I need to devote more time listening to the album. Time which I don't currently have at the moment. However, I will in the future as The Golden Dwarf is an album that will leave a mighty impression on you. Satori Junk style of music could be classed as Avant-Garde at times with everything sounding like a psychedelic nightmare coming to life.
The production is quite loud and intense at times with the majority of the epic songs having the most powerful and out-there moments on the album. Satori Junk has never been the easiest band to categorize and that won't change with this album.
The Golden Dwarf is a superb album. No question, though it will be some time before I build up the nerve to listen to it again.....
Outlaws Of The Sun May 2018
Manuel Knwell — Astorvoltaires (interview)
Astor Voltaires es el proyecto solista del chileno Juan Escobar, quien fue muy conocido en la escena metalera chilena y mundial por haber cantado y tocado teclados con Mar de Grises y posteriormente con Bauda. Hace años que mantengo un contacto con Juan y un respeto hacia su trabajo que ha venido desarrollando hace ya más de 10 años. Pues bien, acá les dejo la entrevista que le hice a Juan y que nos cuenta detalles de su estadía en República Checa y nos desmiente algunos mitos sobre Mar de Grises entre otras cosas.
Juan, muchos conocen tus proyectos, sobre todo cuando tocaste con Mar de grises y Bauda. Ahora cuéntanos ¿Cómo parte la inquietud en la música y qué tan importante han sido algunos profesores de este ramo, incluso particulares ¿Qué cambios le harías a la educación musical en Chile?
Hola Manuel. Primero agradecerte por el apoyo e interés. La inquietud siempre estuvo desde que recuerdo. Tuve/tengo la suerte de contar con el apoyo de mi familia y amigos.
La educación temprana en la música es fundamental, es cuando uno se interesa y el primer contacto es a través de un profesor en el colegio. Tuve varios profesores buenos desde la educación básica hasta la media. Uno de ellos fue el que me guió como músico y del cual estaré agradecido siempre, Jorge Andaur. También el maestro Guillermo Rifo, quien me ayudó mucho en mi desarrollo como músico y compositor. Todos sabemos como es la situación de la educación en Chile que no está enfocado en la música, ya que no tiene que ver con la ingeniería ni da plata… pero a cambio de eso te enriquece el alma. Si pudiera cambiar algo en la educación musical chilena, obviamente pondría más horas de música en el programa, pero no tocando cueca ni el vals chilote, sino que más horas de conocimientos y de cultura.
Tu proyecto solista, Astor Voltaires, que partió el 2008 tiene el discurso en español pero también rescata el Mapudungun, ¿dónde nace el nombre de tu proyecto y eso de cantar en español más las influencias de la cultura Mapuche?, ¿Qué opinas de lo que ha estado sucediendo con los Mapuches y la represión del estado de Chile hacia ellos?
El nombre es simplemente un seudónimo, no tiene un gran trasfondo. Han habido opiniones y comentarios sobre el origen del nombre como Astor (por el músico Argentino) y Voltaires (el filósofo Francés) pero la verdad es que solo es eso, un seudónimo
Trate de integrar el mapudungun, pero fue muy difícil ya que no tengo conocimientos del idioma, la única frase que tome fue el título del mismo disco. Es un idioma muy bonito que espero aprender a fondo. No creo que a estas alturas sea un tabú hablar de represión y menos sobre los Mapuches en Chile. Desde el principio de la historia hay represión contra ellos, justificada o no creo que es repudiable en todo sentido, es un claro ejemplo de nuestra cultura que no se acepta como es y que es marginada de mala manera. En mi opinión no son los pacos los que reprimen, es eso lo que la gente no ve o no quiere ver, es la cabeza la que manda acá o sea los gobernantes proclamados por un país que no ve más allá de sus narices.
Tengo entendido que vives en República Checa, ¿por qué te fuiste? es por lo que dices en la respuesta anterior, querías expandir tu música hacia un continente que valora más la cultura y por ende la música? ¿Qué cosas nos unen con los Checos y que nos distancian como cultura?
La verdad es que las razones son netamente personales, no tiene que ver con darle mejor curso a mi carrera como músico, pero estamos claros que de cierta forma ayuda, ya que en estos países son más viejos y tienen una historia mucho más extensa que la del nuestro y claro que hay una mayor llegada a la música y a las artes en general. La gente se interesa más por las bandas, por las nuevas propuestas. No andan preocupados porque toque “The gathering” y después “Marduk”… no es el tema en general.
Creo que lo que más nos distancia no solo de los Checos, sino de la mayoría de los países Europeos (occidentales), son los derechos como ciudadanos. Tristemente me he dado cuenta de la precaria situación que tenemos como Chilenos y de las pocas ventajas que existen como miembros de este país, del poco apoyo que hay en lo cotidiano, los mandamases y su manejo inapropiado de las masas que no sólo es en Chile, compran seguidores con discursos grandilocuentes que al final son la misma mierda. Es verdad que hemos tenido un crecimiento económico y de país, que aquí que allá, pero eso no beneficia al común de los chilenos, aunque ellos piensen que sí.
Esto nos hace ser un pueblo enojado con lo que tenemos, con lo que nos dan (que no es suficiente) y como resultado tenemos más negativismo que otras naciones. Todo se suma y cuando vemos los números al final encontramos gente disconforme.
Es verdad que cuando estabas en Mar de Grises el contrato con el sello francés: Season of mist, gacias a que uno de los integrantes estaba de novio con una chica que trabajaba ahí, ¿es cierto aquello?
Interesante pregunta. No sé cómo se enteraron! Ahha. Na, la verdad es que no fue así, de hecho, solo fue trabajo, perseverancia, mucha suerte y el gran trabajo de gestión de Rodrigo quien eran el manager de cierta forma.
Cuéntanos, ¿cuáles fueron los hitos más importantes que obtuviste cuando tocaste con Mar de Grises? ¿Habrá sido Mar de Grises la banda más importante del metal chileno actual después de Criminal, tomando en cuenta las giras y en los sellos que estuvieron? ¿Qué opinas al respecto?
Creo que el gran aporte de Mar de Grises fue dar motivación a otras bandas para que se atrevieran a dar un paso fuera de Chile, también al desarrollo del metal y su historia. Firmamos con uno de los grandes sellos metaleros a nivel mundial, pero nunca al nivel mainstream de Criminal. Creo que el doom metal nunca va a ser mainstream.
Puedes ahondar más en ¿por qué piensas que nunca el doom metal llegará a ser mainstream por favor?
No es un estilo que sea popular, no lo vas a ver en el matinal como música de fondo, ni en la TV abierta, ni en el cable, o en el HBO como es el caso de Rammstein o bandas similares. Si, la popularidad va creciendo eso no es discutible, pero no todas las bandas, así como no todas las bandas de rancheras son mainstream.
¿Pensaste en qué alguna vez grupos como Ulver que dijeron que jamás tocarían en vivo, tuvieran un impacto tal que llegaran a tocar o qué Morbid Angel o Cannibal Corpse salieran en películas de Hollywood y que fueran capaces de vender un millón de copias en los 90’?
No, nunca pensé que Ulver tocaría en vivo la música post Bergtatt y lo de Cannibal fue más bien chistoso en la película Ace ventura. Pero de los gringos me espero cualquier locura.
¿Ves la posibilidad de una reunión con Mar de grises en años más?
No sé cuál sea el futuro de MdG. En algún momento estuvo la intención de hacer algo post, último recital, pero no se concretó nada.
Yo personalmente no lo veo muy posible ya que estoy viviendo fuera de Chile, pero y tampoco sé lo que va a pasar y no me cierro a la posibilidad.
¿Cómo fue que tocaste y grabaste para Bauda y que es lo que más recuerdas de aquello?
Tiempos maravillosos de amistad y de soñar. Con César estuvimos siempre con la mente en el mismo horizonte, teníamos muchas cosas afines y el camino a la música se dio solo, era cosa de sentarnos y tocar, no requeríamos ni de hablar para viajar con sonoridades alteradas. Así mismo con Nico y Juan (batería y bajo). Compartimos hermosos momentos que siempre recordaré con mucho cariño. Concretamente grabé los teclados del “Euphoria…” antes de retirarme de la banda por problemas de familia, ya estábamos componiendo “Sporelights”. Mi último aporte fue la producción vocal del este disco, donde estuve con César viendo los arreglos vocales y la grabación de éstos junto a Carlos Fuentes.
¿Cómo surge la idea de plasmar tu propia música y qué tan complejo ha sido el poder tocar en vivo con tu AV? ¿Por qué crees que cuesta tanto encontrar músicos adhoc a lo que buscas?
La idea nunca surge, lo que pasa es que las canciones estaba ahí, era más bien una necesidad de dejar un registro de eso y ahí nace Astor Voltaires como tal.
Los buenos músicos no sobran, al contrario, son pocos los que tienen tiempo además de las ganas de montar un proyecto que de seguro va a traer satisfacciones personales más que nada. Pero estamos en un nuevo año y se vienen cosas nuevas, como el 3er disco y otras novedades.
Tengo entendido que estás trabajando como productor, y que montaste un estudio en Rep. Checa ¿Qué bandas podrías recomendar? ¿Se puede vivir de la música?
Hace un año que estoy en la República Checa y tengo un estudio de producción musical. Mayormente he estado haciendo mezclas y masterizaciones. Algunas colaboraciones también con Target (Chile), The Outside (Alemania) y Abigail (Rumanía) entre otros.
De las bandas que han pasado por aca recomiendo a Tetractys, Barrabaz, Aphonic Threnody (UK), Skeletal Horsemen, Delonelyman, entre otros.
Se puede vivir de la música pero hay que trabajar el triple eso sí, hahaha…
¿Cuáles son tus películas favoritas?
Al igual que en la música me gustan muchos estilos diferentes, no podría hacer una lista de mis favoritas porque estoy seguro olvidaría alguna, pero te puedo decir que me gusta desde “Terminator” hasta “Naked lunch”.
No sé si conoces a Andy Stott, si no es así escúchalo un rato y dime qué opinas de su música más allá de la técnica, quiero saber qué cosas te genera y sientes.
Me gusta la música con recursos minimalistas, las voces, sutiles, mi apreciación a la primera…
¿Qué opinas del anime y de la OST que se hacen para ellos? en donde está presente la música de corte minimalista, nunca has pensado en componer música para algo así, vídeo juegos o películas?
Me gustan mucho los anime (a quien no) He compuesto música para cortos, para teatro y algunas incidentales.
No solo de metal vive el hombre haha. Tengo un variado stock de estilos, latinos, jazz, rock, fusión, minimalista, clásico, contemporáneo, etc.
¿Qué opinas del metalero chileno que se quedó “pegado” en las bandas clichés? Si escuchas algo fuera de ese estilo ellos de seguro te considerarían un “poser”
Cada cual con sus gustos, eso es lo que opino. Nada tiene de malo quedarse con los clichés. Ahora lo que ellos opinan de mí me vale verga, por ejemplo si escuchó Morbid Angel y al mismo tiempo Deftones. ¿Por qué no? El chileno nuevamente muestra su régimen. Es algo cultural, nada de eso se puede cambiar por ahora, es así y punto, está en la sangre lamentablemente.
Sí tuvieras que elegir un solo disco de AV para recomendárselo a un ser de otra galaxia ¿Cuál sería y por qué?
Totalmente sería el nuevo disco, que es lo mejor que he hecho como músico y productor. Los va a llenar de esperanzas y alejar de la tierra llena de gente mala haha. Es un disco donde exploro un poco más con las sonoridades acústicas, los efectos, ebows y bows. Voces más melosas y guitarras acústicas. Tuve el honor de grabar con dos grandes bateristas; Francisco Placencia y Jorge Rodríguez.
¿El libro qué te haya impactado más y por qué?
No soy muy de novelas, pero un poeta que me cambio la vida fue Eduardo Anguita, Chileno. Nunca había leído algo tan transgresor como Anguita, y lleno de metáforas ocultas y con un mensaje tan claro como el agua. Inspirador.
¿Qué opinas de John Cages? que afirmaba que cualquier persona podía hacer música y que la definió: “como la sucesión de sonidos con determinada altura y timbre”, te sientes identificado con esos nuevos conceptos y que de alguna forma derribaron paradigmas…
Si cada uno puede emitir públicamente sus pensamientos… por qué no. Yo lo hago y cada día más gente lo hace en la medida de lo que puede… ahora, alguna razón objetiva tuvo para decirlo, razón que yo desconozco.
¿Cualquiera puede hacerlo? depende del concepto de música que tengas. Ahora si música para ti es “todo lo que suena”, claro que puede ser. Pero música con un contenido más allá de la sonoridad o del estilo, eso no creo que cualquier pueda hacerlo. No es por renegar de las palabras del maestro Cages, pero nuevamente pienso que cada uno tiene una opinión valida, la mía es que no todos pueden hacer música con contenido y un contenido más allá de alturas y timbres porque eso es una parte de la música, no todo. También está la pre y post producción y un sin fin de detalles. No puedes resumir el mundo de la música en 2 aspectos. Imagínate Pink floyd sin dinámicas y sin articulaciones, hahahaha… no tendría huevos.
¿Te gusta el silencio? Qué opinas de la frase del cineasta ruso Tarkovsky (rip): “Los jóvenes le temen al silencio” ¿Por qué crees que habrá dicho esto?
El silencio es parte de la música…de todo. Pero no tengo idea porque este señor lo dijo, me imagino que una buena razón existió. Además depende del contexto en que lo dijo. Si fue en plena época comunista… quizás ahí se entiende mejor…
Juan, para terminar tienes algún mensaje para los lectores o algo que desees agregar.
Primero agradecerte a ti por la confianza y por el apoyo. Añadir que el próximo trabajo de Astor Voltaires esta ad portas de ser publicado y que la fecha oficial de lanzamiento es en Septiembre de este año, será en una edición deluxe y tendremos merch y ofertas de lanzamiento, pronto habrá una publicación oficial de esto. Además agregar que se vienen bonitas sorpresas para la banda y la gente que gusta de Astor Voltaires
Para todos los que lean esta entrevista espero que la hayan disfrutado y que sigan apoyando la música.
Novutrefall Records May 2018
Snarl — Throne “Consecrates”
Bel secondo album sludge per i Parmensi Throne, fautori di una manciata di canzoni davvero marce racchiuse in poco più di 50 minuti. A parole, è abbastanza semplice la ricetta musicale di questi Throne: prendi dei riff tipicamente blues/southern a con un andamento tipicamente lento e stoner doom, ma aggiusta il tiro di queste influenze fino a rendere tutto marcio da far schifo, potente e oscuro. A parole te l’immagini facile, ai fatti non è semplice fare tutto questo e comunque tenere il tiro delle composizioni alto.
Per questo l’ascolto dell’album ti spiazza e ti sorprende, con una opener “Sister Abigail” che funge da ottima premessa per il resto dell’album, costituito da una “Lethal dose” scurissima e cattiva, il cui mid tempo fa il verso ai Cathedral anneriti e sporcati, mentre una “There’s no murder in paradise” va a lambire sonorità più doom/death, fomentate dall’utilizzo della voce growl, mentre il lato più spettrale si ascolta al meglio in “Baba Jaga”, che nonostante dei riffs sfacciatamente stoner e bluesy riesce comunque ad essere oscura e spettrale. Conclude la lista dei brani che ho preferito di più la penultima “V.I.R.”, più canonicamente stoner, ma comunque dotata di un poderoso rallentamento verso la fine del brano.
Non molto di davvero innovativo e di longevo, dunque, ma “Consecrates” dove non può tanto farcela per originalità o poliedricità del songwriting, compensa con il tiro dei brani e con la potenza degli stessi, risultando dunque forse non un album destinato a rivoluzionare il mercato, ma sicuramente a farti passare più di 50 minuti di marcia oscurità sonora, colonna sonora ideale sadica di un dopo sbronza finito malissimo. Se questo è il genere musicale che state cercando, “Consecrates” dei Throne è senz’altro un disco che soddisferà la vostra voglia di ascolti malsani, anche a scapito di un po’ di originalità.
76
Metalwave.it May 2018
Billy Goate — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Imagine if Electric Wizard were to have been birthed in the ‘60s, bathed in groovy organ, bells, and bluesy tones, but with that same downtuned crunch and angsty, wanderlust vocals. Mix in an element of the horrific (vis-a-vis Acid Witch, Merlin, The Night Stalker, Bloody Hammers), and you have a good hint of what you’re in for with the latest spin by SATORI JUNK. The foursome from Milano offers something for doomer and stoner alike in their new LP and it is indeed a trip – perhaps their finest yet.
Today, Doomed & Stoned is giving you a first listen to Satori Junk’s 'The Golden Dwarf’ (2018), which cannot help but possess your soul. It’s their second full-length, following the Italians’ memorable self-titled debut in 2015 (which was a terror in its own right). Doom on acid!
Were it not for the opening narration, I would have almost believed I was in for an altogether different record. The cool, jazzy blues vibe that welcomes us to its opening number, “All Gods Must Die,” represents anything but fear and terror. This is a deceptive world of illusions, however, and the spell lasts but for brief moments before bad acid kicks in and ushers into the nightmare of a “Cosmic Prison” with a laugh.
The new landscape presents the atmospheric synth, spacey synth, and bizarre, swirling noises that rise like incense unto the heavens. A madman strikes the organ, and we hear the echo of unhinged vocals, joined by grim, grinding riffs. The song’s climactic moments welcome the presence of a wicked psychedelic guitar that gleefully shreds us all to pieces in a psychotic jam with organ play that has now reached a fever pitch.
We got a hint of the ghastly tenor of The Golden Dwarf last week when Satori Junk released the single “Blood Red Shrine,” made into an appropriately dank music video by DJ Gryphus, which I’ve dropped in the interview below for your viewing pleasure. In fact, I bid you go read it now, as you’ll gain great insights into where the record is taking us in the tracks ahead, including my favorite, “Death Dog.” On the other hand, it may be more fun to let your imagination bid you where it will. “You buys the ticket, you takes the ride,” as they say.
The Golden Dwarf is a funhouse filled with disturbing twists and turns, steep slides, spinning disks, shifting floors, and oddly distorted mirrors. What makes it work so well is the bed of fuzz-soaked doom and a mean-as-nails beat that grounds our footing in this floating barge of psychedelic lights, cascading pedal chirps, and otherworldly synth. It’s definitely an album I would recommend listening to in one sitting for full effect. Don’t miss the incredible Doors cover that ends this romp through space, either. You’ve never heard “Light My Fire” quite like this before, perhaps my favorite alt rendition yet of the classic song.
Satori Junk release The Golden Dwarf on Thursday, May 10th, in digital and CD format. It can be pre-ordered here. Until then, you can stream it all via Doomed & Stoned, so you’d best dose up, rest your weary head, and…
…give ear.
An Interview with Satori Junk
Tell us about the band’s origins – how you met and decided to play this kind of music?
We met in the spring of 2012, after publishing an announcement on a local music website. Each of us was looking for a doom/stoner band to play with. Since we had not a single riff ready, we spent our first rehearsals jamming. Sometimes we played more than twenty minutes over a single riff, improvising or making little changes to our parts. After a month playing as an instrumental trio, Luke arrived. Together we decided to color our wall of sound with synths. That winter we were ready to record our demo: Doomsday.
What is the origin of the name Satori Junk?
It’s taken from Second Hand, a novel by Michael Zadoorian. The main character, Richard, owns a secondhand store with that name. These two words together to create a wonderful contrast. “Satori” is the Japanese for enlightenment. This could also fit in our music.
How would you describe your style of music?
An acid and powerful mixture of heavy riffing with something more colorful and ethereal, like the synths from the seventies.
What is the inspiration behind your musical and lyrical content?
Musically, we always try to gather inspiration by every kind of music we are into. Being strictly tied to a genre doesn’t work for us. Every band member exploits his own influences and contributes to the final work. Our lyrics are like short, surreal stories with bizarre characters, perfect for a B-Movie horror script.
What’s the relationship between your new album and your older records?
When we recorded our first album, we had no expectation at all. Now it’s different. People are starting to recognize our sound and we feel a little more responsibility. In three years, we have grown a lot, changed our drummer, whose effort was fundamental, and tried to distance ourselves from genre stereotypes to develop our own sound. There is always a link between our previous work and the new one. We didn’t overturn our style; we just made it heavier and more personal.
What is the significance of the title, 'The Golden Dwarf?’
The Golden Dwarf is a potion. A magic drink to achieve tranquility, calm down the anger and relief the pain. It’s cheap and it works, but it has one collateral effect: it will annihilate your mind and your soul. It’s like a deal with the devil.
Finally, would you be willing to guide is through the tracks on the new album and give us any insight into each of the songs?
“All Gods Die” is about depression and the struggle to give a meaning to your own life. Some people find relief in faith, some prefer to fight for their own and others prefer to give up and comply with society. It’s not easy to face the consequences, but the better choice is to defy the gods.
In “Cosmic Prison,” the protagonist is banished to a remote planet, alone, planning his escape and vengeance over the humankind. Everyone has his own prison. It’s not necessarily something physical, but the desire to overturn your own destiny is real.
“Blood Red Shrine” is a turning point, a doomy song where a mysterious force leads you to death or simply to transcend into another reality.
“The Death Dog” is a mystical trip where a skinny and creepy creature shows us our remote future dominated by chaos, where the mind reaches the bottom of the abyss.
The title track is the epilogue: shaken by anxiety, suffering and hate, we try to find a solution, drinking from the magic bottle. It’s a trap! We feel invincible, but it’s only a round trip.
“Light My Fire”…well, you all know that one!
Doomed & Stoned May 2018
medianman19 — Satori Junk “The Golden Dwarf”
Italian based Doom Acid Metal band Satori Junk are back with their new album The Golden Dwarf, and boy is it an experience.
The Intro is a spoken word clip, that introduces the album, with some haunting warnings. All Gods Die is slow to start, the instrumentation mixes haunting melodies, with piercing precision to create, something definitely acidic. The guitars create the horror that the lyrics sing of. When the heaviness kicks in the listener knows, this song blares through from one end to another, a true heavy opener. Cosmic Prison is a layer of solid sludge, guitars and drums in synch, the vocals tell the story of something horrifying and gruesome. Blood Red Shrine is a trip, the guitars, the drums the rhythm of the song is slow, with something like death creeping up on you, ready to pounce and take everything to the next level.
Death Dog has swagger and groove the guitars and the drums carry the song aptly. The Golden Dwarf is the title track, and it makes everything that much more interesting, eerie, anthemic and heavy all at once, something that really carries over and makes things sing properly. Light My Fire is a heavy mix of the classic Doors song mixed with Satori Junk’s own unique style, a fitting tribute.
The Median Man May 2018
Paula Antunes — SuuM (interview)
Hintf: Antes de mais agradecemos o vosso tempo para com esta entrevista e para todos os que só agora tiveram a oportunidade de conhecer a vossa música, o que nos podem dizer sobre o processo emergente dos SuuM enquanto banda?
Mark Wolf: Olá, os SuuM são o Rick, o Painkiller, o Marcas e o Mark Wolf. A banda formou-se em 2017 em Roma, com a intenção de tocar Doom Metal. Basicamente tocamos a música que nós próprios gostamos de ouvir.
Hintf: ‘Doom for the Doomed (a Condenação para os Condenados) ‘ é uma frase muito forte e memorável que se entranha facilmente na nossa memória musical e sem dúvida nos guia na direção certa do estilo musical que os SuuM nos oferecem! Que força teve esta ‘condenação’ nas vossas almas musicais para criarem SuuM?
Mark Wolf: Todos os menbros da banda são maníacos por Doom desde há muito tempo, os SuuM nasceram com a intenção de tocar Doom Metal, Doom for the Doomed, nada mais. O Doom é conhecido como o género que se celebra a sim mesmo. E a alma é algo importante quando tocamos este género de música.
Hintf: O que significa SuuM e porquê a escolha deste nome para a banda? Quais eram as outras opções?
Mark Wolf: Bem, SuuM deriva da língua latina, mas honestamente escolhemo-lo pela forma como soa aos nossos ouvidos, arcaico, antigo. É perfeito para a nossa música.
Hintf: Lançaram recentemente o vosso disco de estreia da vossa carreira, “Buried Into The Grave”, editado em CD pela editora Endless Winter e em cassete pela Hellas Records. Estamos de volta à era do vinil, por isso planeiam também alguma edição especial em vinil para este disco?
Mark Wolf: Assim esperamos, somos todos fãs do vinil.
Hintf: Falem-nos um pouco mais sobre “Buried Into The Grave”, a sua ideia conceptual, principais inspirações e influências, sobre que nos fala?
Mark Wolf: “Buried Into The Grave” é a banda Sonora perfeita para uma caminhada noturna num cemitério. Como disse, não somos inovadores, não estamos a inventor nada de novo; queremos apenas tocar Doom metal com a atitude certa. Liricamente sempre me interessou o lado obscuro das coisas. Com o uso de metáforas descrevemos o horror que nos rodeia todos os dias.
Hintf: Provenientes de Roma, Itália, um país também bem conhecido pelo constante florescimento de novas bandas, como é a cena local e quão bem está o vosso disco a ser recebido quer pelos fãs e pela Imprensa?
Mark Wolf: Há um bom movimento e por princípio há um bom apoio entre bandas. “Buried Into The Grave” tem sido muito bem recebido, totalmente não expectável. Provavelmente a nossa intenção foi bem aceite pelos ouvintes.
Hintf: Revelem-nos os planos e a agenda de concertos para a promoção deste “Buried Into The Grave” pelo mundo fora, Portugal está incluído em alguma dessas datas?
Mark Wolf: Temos algumas datas agendadas, também fora de Itália; o nosso desejo é tocar o máximo possível e em todo o lado. Claro que também esperamos poder tocar em Portugal um dia.
Hintf: A arte visual de SuuM; quem é o responsável pela imagética da banda e de onde vem a inspiração para esta?
Mark Wolf: O Painkiller (o nosso homem da guitarra) é o artista que cria o nosso grafismo. A inspiração vem da atmosfera e cenários que criamos com a nossa música.
Hintf: Por fim mas não menos importante, deixem-nos uma lúgubre e fatídica mensagem aos nossos leitores e vossos seguidores portugueses!
Mark Wolf: Obrigado pela interessante entrevista. Hey maníacos! Ouçam o “Buried Into The Grave”, a banda sonora perfeita para um passeio noturno no cemitério. Sigam o Sabbath!
Hintf May 2018
Nick Nihilist — SuuM “Buried Into The Grave”
If an album can rip the house down with its first two minutes, then you know you’re in for a ride, and that’s exactly what Suum does on its first track “Tower Of Oblivion”. The Candlemass inspired riffs and melancholy vocal style of Mark Wolf conjure up soul sucking forces that are just too damn good to turn off. Right when you need to hear it, guitarist Painkiller sends out a maelstrom guitar solo to divide the song’s crushing first half with its ominous conclusion. In the final seconds of “Tower of Oblivion”, vocalist chants in a ghastly whisper that left me cringing -- in the best way possible.
Halfway through Buried Into The Grave’s opening salvo, you may find yourself going backward in time to an age when the doom metal scene was harvesting the ripe crops of a metal scene in need of something new. Epicus Doomicus Metallicus was released at the peak of thrash metal domination and did everything opposite from what that community was into at the time. Candlemass’s first album perfected the boundaries and culture of a gloomy overlooked sub genre that few others dared to experiment with, and to this day most of the best doom records embody the work Leif Edling’s Swedish ensemble left in place. Moody blues rock inspired by the jams of Black Sabbath forged with leviathan punk chords that stalled until death set in became a common practice in the doom metal scene, but somewhere along the line that formula became muddled with a thousand different possibilities and for better or worse the genre evolved. Suum does not muddle the formula or attempt to present an aesthetic that is anything but traditional.
By track two, one should expect that the quality of Suum is going to continue. “Black Mist” is a hypnotizing incarnation of pure doom that follows a righteous format of the genre without succumbing to bogus stereotypes. Lurking in the shadows of the Mediterranean and all its mystique, Suum have risen from the grave of the world’s greatest ancient empire to unleash one of the best debut albums in the scene on an independent label or any label for that matter.
Exciting grooves frequently bring a freshness to the otherwise apocalyptic melodrama of the album. Its titular track is a great example of this. Doom metal is at its best when the music is as invigorating as it is brooding. Empowering chords compliment primitive war drums and a cascade of enthralling vocals.
A doom metal dirge is only as good as the headbanging forewarning that precede it, and I think that Suum did a really good job of capturing both of the necessary elements that make great doom metal songs.
You can tell that the Italian unit is on top of a really pure chemistry of doom metal, and they’re not willing to muck it up, but they don’t disappoint by failing to meet the standards of the forebearers like Solitude Aeturnus, Candlemass, or Reverend Bizarre, either. “Seeds of Decay” comes up from a fog in the swamp and clutches you with grooves that ooze all over the track’s 5:44 minute duration. The temptation of death and all of its fascinating entropy is superbly captured.
Like the religious iconography emblazoned on much of Suum’s media, the music of Buried Into The Grave dispels forced modernity with monolithic and antiquated mystical fury. Marco states Suum is not influenced by Christianity, but with so many doom metal bands throughout the ages using the mystical symbolism toward their own ends it just looks right in place on the band's artwork.
Suum proves that truly no greater limits need to be reached with doom metal, and that when done correctly throwbacks can still achieve quality without contriving rehashed styles. The album may be called Buried Into The Grave, but now raised from the dead, Suum is as they style themselves, doom for the doomed.
Doom Gazed May 2018
Ivan Tibos — Shattered Sigh “Distances”
I had not heard of them before, but apparently Shattered Sigh are active for more than a decade. They were formed as Black Whirlpool in 2006, and in 2010 they changed their moniker into the current one. Investigation, however, taught me that it was not that strange at all that I did not know them. There was only one official release until now: 2011’s untitled demo with songs written when the band was still known under their former moniker. Then things went silent, until last year.
With a renewed line-up, this Barcelona-based band re-entered the Axtudio in order to record Distances. Six pieces were chosen and gathered as Distances, and this got released independently and digitally. But hurray (oops, a hollo of joy for a Doom-release; what going on?...), Only Doom Metal Label Endless Winter took care of the physical release of this album. It’s a jewel case compact disc that includes an eight-page booklet with sober photography and the lyrics (which are in English), coming in an edition of 300 copies.
After a short introduction, consisting of eerie soundwaves, distant church balls and the sound of wind (nah, who needs originality, if this introduction says it all), this Catalonian horde brings quite typifying Doom-Death Metal in a vein that holds the middle in between melancholy and harshness. This material – but what else did you expect – is ultimately slow and oh so melodious in performance. The basics are built upon melodious leads, tremolo riffs, and dual lead melodies. It surely sounds depressing, introvert, integer and sad, with a hint of funereal darkness. But it’s not just melodic; it’s enormously varied too, this approach. Every half a minute, something changes, evolves, sometimes expected, then again quite sudden. Breaks, interludes, changes in melodic structure, solos, semi-acoustic excerpts and so on – it truly is an adventurous thing, this Distances album.
I wrote hundreds of reviews for albums within this specific kind of Music, and quite often I referred to a lack of originality. But at the same time, I did always add that one does not need any renewing material, at least in case when the result equals, or overpowers, the high level of other notorious acts. Distances by Shattered Sigh consists of all known ingredients: very deep grunts, the melodic guitars (as mentioned), an extremely forceful rhythm section (excellent drum patterns and fine bass lines), spoken words, acoustic and semi-acoustic excerpts, mesmerizing keyboards, piano, field recordings and sounds / samples (bells, elements of Nature like wind and thunder), some blackened screams, and so on, and so on. But believe me: in the end, this whole journey is truly of a convincingly high quality. Despite the lack of having an own face, it’s a pleasure to experience highly qualitative song writing and a crafted execution. The unhappy atmosphere feels all right, the sound quality is perfect (great production, with an equally divided mix of all instruments / voices, and a rich, warm and full result), and besides (or is it: thanks to) the huge variation, there is no room for boredom whatsoever.
Fans of Evadne, Saturnus, Novembers Doom, Swallow the Sun, In Mourning, Slumber or The Fall of Every Season and the likes must pay attention!
85/100
ConcreteWeb Apr 2018
Ian Morrissey — Nordlumo “Embraced By Eternal Night”
Over the years, there has been an extraordinary amount of Doom bands springing up in Russia. Nordlumo are an example of such, and 'Embraced By Eternal Night' is their debut.
I have to confess that I really wanted to like this release purely based upon the images that they used on the album cover. I'm a sucker for a beautiful picture, and this inlay has several so I was an immediate fan on that front.
Musically, I thought this release was pretty bang average, to be blunt. It's stereotypical Funeral Doom from Russia that most of you have heard time and time again with the odd soaring solo, whispered vocals, and atmospheric drifts. The growls are quite good though - I did like them. Ultimately, I thought the music was a little tame here though. It was lacking in drama in any capacity, basically. I don't mind the "tame" approach to Funeral Doom as long as it's done properly but I never got the impression that 'Embraced By Eternal Night' was. Don't get me wrong - I can't complain about the musicianship because that seems peachy enough, as does the mix. I just don't feel like the song structures are particularly interesting, which is a bit of a shame when you consider that all other required ingredients for a good release appear to be present here.
There was only one thing on this album that I disliked. As some of you will have noticed, the misspelling of 'Millennium' in the fifth track does indeed serve as a prelude for grammatical annihilation of the English language. I understand the image(s) that Nordlumo tried to create with their songs and I even appreciate them to an extent. However, the way in which they've conveyed them via a second language is really damaging to those images. I'd almost rather they wrote the lyrics and song titles in Russian because at least there's a touch of mystique (for those of us that don't speak Russian, that is!) about the album rather than me being able to see how ham-handedly they've butchered the English language. The images are great; their descriptions of the images are poor. Other than that, just the odd instance of the cymbals keeping the pace of the music moving too fast and keyboards dragging on for too long irked me.
Unlike some Doom fans, I'm not averse to a band doing what others have done before them. A direct copy would be annoying but few of those exist. I recognise that most Doom approaches have already been done in the past so it would be harsh of me to be critical of a band for making a release that sounds like others because it's inevitable really. Therefore, I try to rate the release based upon the music itself rather than how original it is. However, I struggle to find anything about this release - other than the artwork - that I could endorse to any Funeral Doom fans. I wouldn't say that there's anything musically on this release that is badly done but it's not particularly atmospheric, captivating, or interesting. My view is that this CD only belongs in the library of an avid Funeral Doom collector because it's hard to imagine that many people would find much merit on 'Embraced By Eternal Night'.
6/10
Doom-metal.com Apr 2018
JK — Satori Junk “The Golden Dwarf”
The Italian fuzzy foursome Satori Junk is back! Three years ago, they released the amazing self-titled record that brought us pure delicate and heavy gold. And now they return with a follow-up called The Golden Dwarf. On it they transform seventies psych and prog into something nasty, creepy and grimy. Full of electronic touches and a wall of fuzz their self-proclaimed acid horror comes to climax on the third track Cosmic Prison. Its sticks, it enchants, and it creeps you out like a crazed haunted mansion. What a song! And they continue that level though out the album with their very own take on psychedelic doom. This is the stuff that dreams are made off, or nightmares! Either way, The Golden Dwarf is your ticket out of this dreary world and into a land of magic and horror! I for one am laying my head down on the Blood Red Shrine to see what Satori Junk and The Golden Dwarf will do with it… They already have my head, heart and soul anyway!
5
Stoner Hive Apr 2018
medianman19 — SuuM “Buried Into The Grave”
Suum are Italian doom metal legends, who have proven on this new record that they deserve their place in the pantheon of greatness.
Starting with an absolute monster of a song in Tower of Oblivion, it is clear from the moment the thunder rolls in and the bass and guitars kick in that the band means business. This is an absolutely terrifying piece of metal from the band, and demonstrates their skills and capabilities excellently. Black Mist is a shake through, a story and a journey that is based on a moving set of parts, riffs and melodies that create the ultimate doom metal track. Title track Buried Into The Grave is a chilling piece, mixing groovy, and doom-laden riffs, with precise rhythms and vocal points, it is a song that is sure to get people moving.
Last Sacrifice is a dance through the movements, precise, brilliant and earth-shattering in its simplicity. Seeds of Decay is a slow-moving, growling song that brings out some of the meatiest riffs that have been in metal as of late. The Woods Are Waiting is a patient, precise and slow-moving instrumental track that does much to set an interval between proceedings. Shadows Haunt The Night is a thumping monster of a song, brimming with riffs and heaviness, filled with potents and all sorts of dark and dangerous things, a sure sign that things are progressing.
The album is out now via Endless Winter and Hellas Records.
The Median Man Apr 2018
Rybo — Satori Junk (interview)
Italian Acid Horror Doom behemoth, Satori Junk are readying the release of their second full length, The Golden Dwarf. In anticipation of this record, I was able to snag a promo copy for review and also conducted a brief interview with vocalist/keyboardist Luke Von Fuzz. Howling croons, chainsaw guitars, bong-rattling bass lines, and thundering drums abound on this release... but what really makes Satori Junk and this album stand out in a crowd of sound-alike doom bands, is the use of keyboards and synth. Providing a hybrid of carnival music and a horror movie soundtrack, The Doors influence is undeniable when it comes to Satori Junk's unique sound. Perhaps if Jim Morrison came back from the dead with a penchant for Acid Rock and Doom Metal, The Golden Dwarf would be the result.
The Golden Dwarf starts out with a spoken intro, which serves as more of a warning to the listener and with good cause. Satori Junk has basically provided us with the soundtrack to a lucid dream, or nightmare in this case. It would be wise to take this warning seriously or you may not make it back out. After the intro is over, we get 5 fucking big chunks of original material followed by a cover of Light my Fire by The Doors to close out the album. If you're familiar with Satori Junk, you already know what you're in for. If not, there is nothing that I could possibly say to prepare you for the aural onslaught you are about to experience.
Before I had a chance to listen to The Golden Dwarf in it's entirety, I had the opportunity to catch up with Luke and ask him a few questions about the record and other stuff as well.
d00mwizard's Dungeon: Hey man, thanks for taking the time for this interview.
Luke Von Fuzz: Yes, of course. Did you listen to the full album yet?
dD: I got through the first five tracks on my drive into work this morning. Fucking awesome, man.
LVF: Glad you like it! What's your favorite track?
dD: So far, I'm digging Cosmic Prison the most. Once I session the album a few times, that may change but they're all rad.
LVF: Cool. I'm just curious because I think every song on the album is different, so everyone can appreciate something about it.
dD: For sure, man. I'm a big fan of The Doors so I can't wait to get to that cover song as well.
LVF: The Doors are the reason I started playing organ!
dD: That was actually going to be my first question. What made you want to start playing music in the first place and who do you consider your influences for what you are creating with Satori Junk?
LVF: Ok, so I started playing keyboard because of bands like The Doors and Gandalf. I really dig 70s psych a lot. When I met Chris and Lory, they introduced me to Doom bands like Pentagram, Candlemass, Electric Wizard, Sleep, etc. So I thought, why don't we start a band combining the horror aspect of Doom with the mindblowing aspect of Psych? That's how we created Satori Junk.
dD: You guys definitely have a very distinct sound. That's for sure. In addition to musical influences, where do you pull your influences from, lyrically?
LVF: My lyrics are inspired by my dreams... and my nightmares. I experimented with lucid dreaming a while ago and began to write stories. The Golden Dwarf is a collection of those psychedelic stories. Every song has a moral and often the characters within die at the end. I hope to make the listener travel to a different world, the edge of their subconscious.
dD: Damn. Seems like your mind is a pretty dark place. It definitely works well with the style of music you play. Other than Satori Junk, are you or any of the other guys actively working on other projects that you think your fans should know about?
LVF: Yes. Max and Lory have a grindcore duo called Penguin Corpse, powerful yet funny. I've got a drone duo with Etienne from Chains and Violet Temple called Druidorama. I also work on electronic music in a solo project. Chris also like to create stuff with analog synthesizers when he isn't playing guitar. He's a very creative musician! None of us can stop making music haha.
dD: That's awesome. Sounds like you all have a lot of musical outputs. Any hobbies, outside of playing music?
LVF: Yes. We are all music fans, so we go to a lot of festivals and shows to see bands live. We like to drink and smoke, meet new people. I also make trippy designs. We're all creative people always looking for new outlets.
dD: That's what's up. So you guys have been working with the same artist, Roberto Borsi, since your last album. How did you guys connect with him?
LVF: Roberto is an awesome tattoo artist. Chris has a lot of tattoos by him, so he has been a customer and friend of his for years. We all love his art. So he created this concept idea of the monster on our cover art, which I think represents the mood of our music perfectly. The most important part of this album's art is the bottle.
dD: So the monster is kind of like the band mascot? Does it have a name?
LVF: We never really thought about it before, but I guess he could just be The Satori Junk Monster.
dD: That makes sense. So what's the significance of the bottle? Or is it a secret?
LVF: The bottle is full of a potion called The Golden Dwarf that causes insensibility. You no longer suffer, but you don't feel anything good either. It comes with a contract, you must trade your soul for the potion. This is the story told by the title track on the album. This is our goal as a band too, We want to trade our record for your soul hahahaha.
dD: I'm sure I can think of a few people that would take you up on that offer. Last question: Stranded on a desert island, one book and one record. Name em.
LVF: The Flying Teapot by Gong and The Picture of Dorian Gray by Oscar Wilde.... I'm pretty sure.
dD: Nice! Well it was rad talking to you, man. Getting a little bit of insight into the mind of Satori Junk. Looking forward to May 10th for the album to drop!
LVF: Me too, dude. Me too. So I can finally play the songs live.
dD: Thanks for your time, man.
LVF: Thanks for the interview!!
Thanks to the band for hooking me up with the promo. The Golden Dwarf will be available on May10th, 2018. Check out the bandcamp link below to listen to the first single and pre-order the album while you're at it. Don't drop the ball on this one. It's a no-brainer.
D00mwizard's dungeon Apr 2018
Gustavo Scuderi — SuuM “Buried Into The Grave”
Enjoy this Stygian and occult album featuring seven tracks of pure gloomy Doom Metal, masterfully delivered by an Italian quartet that has already succumbed to the dark side of music.
Let’s dive deep into the sluggish and obscure realms of old school Doom Metal to the music by a Italian quartet that goes by the name of Summ, formed in 2017 in the Italian capital Rome. Comprised of Mark Wolf on vocals, Painkiller on the guitar, Marcas on bass and Rick on drums, Suum are releasing now in 2018 the full-length album Buried Into The Grave, featuring seven tracks of pure gloomy Doom Metal, bringing to your ears not only a Stygian sound tailored for the doomed, but also cryptic lyrics about darkness, doom and occultism, being highly recommended for fans of Black Sabbath, Danzig, Candlemass, My Dying Bride, Electric Wizard, and all other bands and artists that have beautifully succumbed to the darkest and most lugubrious side of music.
If there’s rain, thunder and wind, you know the music is going to be doomed, which is exactly what happens in the opening track Tower Of Oblivion. Marcas kicks off this damned feast with his low-tuned bass until the rest of the band joins him in darkness, with lead singer Mark Wolf haunting our souls with his Black Sabbath-inspired vocals while Painkiller fires sheer obscurity through his riffs, with all vileness increasing in intensity until its crisp ending. And their Doom Metal mass goes on in Black Mist, led by the steady beats by Rick while the phantasmagoric vocals by Mark and the heavier-than-hell riffs by Painkiller generate a truly somber atmosphere; followed by Buried Into The Grave, which in my humble opinion is the most Stygian of all tracks of the album (hence, it would definitely make Tony Iommi proud). Not only the vocal lines are deep and deranged, but the combined sound of guitar, bass and drums create this gloomy creature that will mercilessly enfold you just like pitch black darkness.
Last Sacrifice is another classic Doom Metal tune spearheaded by the slashing riffage by Painkiller and the slow but intricate beats by Rick, putting you on a trance and inspiring you to crack your neck headbanging, with the music flowing smoothly and darkly until the end. Then bringing the most acid and somber elements from Stoner Metal and Rock we have Seeds Of Decay, an atmospheric and sluggish creation by Suum with highlights to the rumbling sounds extracted by both Painkiller and Marcas from their hellish strings, whereas in the melancholic and introspective instrumental The Woods Are Waiting we face more rain and wind, going on for a bit too long though (albeit nothing that will make you skip it). And finally, rhythmic drums and scorching hot riffs ignite their last breath of old school Doom Metal, the somber extravaganza titled Shadows Haunt The Night, where Painkiller sounds absolutely on fire during the entire song, adding an extra touch of malignancy and obscurity to the final result.
You can succumb to total darkness by listening to Buried Into The Grave in its entirety on YouTube, by visiting Suum’s official Facebook page, and obviously by purchasing such dense and entertaining album from the band’s own BandCamp page, from the Endless Winter webstore, from the Hellas Records webstore, or from Discogs. Those four skillful Italian metallers not only live up to the legacy of traditional Doom Metal, but based on the high-quality of the music found in Buried Into The Grave, they’re also more than ready to carve their names in the history of such distinct music style.
Best moments of the album: Tower Of Oblivion, Buried Into The Grave and Shadows Haunt The Night.
Worst moments of the album: The Woods Are Waiting.
THE HEADBANGING MOOSE Apr 2018
Asphyx — SuuM “Buried Into The Grave”
Všimli jste si, že květiny na hřbitově jinak voní? Jakoby do nich byly otisknuty příběhy všech zemřelých. Schválně, zkuste si někdy sednout na lavičku, hned pod kříž Ježíše Krista. Sledujte shrbené postavy pozůstalých, nasávejte atmosféru místa, kde nakonec všichni spočineme. Všimněte si, že některé náhrobky jsou nahlodány zubem času. Počítejte věk na kamenných deskách. Kdy přijde náš čas?
Nová deska italských doomařů SUUM ve mě evokovala podobné myšlenky. Jejich album "Buried into the Grave" mě v myšlenkách opravdu přeneslo na starý, polozapomenutý hřbitov někde v horách. Malá márnice, zvon umíráček a tichá rakev právě zajíždějící do země. Průvod plačících. Tradice, upřímnost, jadrnost a zemitost. Tohle všechno z jejich hudby cítím.
Co se týká hudební náplně, tak není album "Buried into the Grave" vlastně vůbec ničím nové. Cítím zde vlivy CANDLEMASS, TROUBLE, PENTAGRAM, CATHEDRAL, SAINT VITUS, FORSAKEN, chvílemi snad i BLACK SABBATH. Nijak mi to nevadí, pánové totiž dokázali dát do starého klasického doomu i kus sebe samých. Novinka se opravdu velmi dobře poslouchá, uklidňuje mě, zároveň jitří moji mysl. U hudby je hodně důležité, zda je zahraná srdcem a u SUUM je jasně vidět, jak je baví hrát. Vypadá to, že jsme naladěni na stejných vlnách. O zvuku ani obalu netřeba hovořit, obojí je v nejlepším pořádku. Až budou jednou rozhazovat můj prach na rozptylové louce, tak si na SUUM určitě vzpomenu. Jsou pro mě důkazem, že odkaz poctivého smutku ještě žije, doutná, pálí. Chladná a studená nahrávka, která vám bude velmi příjemným průvodcem při umírání.
Odložte všechny nedůležité věci, odhalte svoji mysl, uklidněte svoje duše. Jsou tady SUUM a jejich nová letošní kompilace smutných písní. Okultní doom metal v jejich podání je velmi chladný, smutný a pojednává o posledních věcech člověka. Klasické songy, tradiční studená atmosféra. Nahrávku bych doporučil všem, kteří rádi tráví dlouhé hodiny na hřbitovních cestách. Pečlivě vystavěné skladby pomalu gradují, hlas preluduje jako kněz při poslední modlitbě. Slyším zase zvony! Kdo bude další na řadě? Všichni tam, do země stínů, jednou musíme a SUUM nás na to připraví opravdu velmi dobře. Pokud milujete podzim, sychravé počasí, mráz zalezlý někde v kostech, padající a umírající listí, budete s "Buried into the Grave" trávit určitě dlouhé chvíle. Vítejte na pohřební hostině, podávána bude nová deska SUUM.
DEADLY STORM Apr 2018
Ivan Tibos — Suffer In Paradise “Ephemere”
Voronezh, about 200 kilometres North-East from the border with Ukraine, is a city with a vivid (Extreme) Metal scene. Sterbefall, Effluo, Ravencry, Memorial (nowadays active as NorthZyklon), Skyfall, and so on – for several of them I did write a review in the past. It’s home too for Suffer In Paradise. This band was formed at the very end of last decade, but with exception of the recording of a demo, and probably some local gigs, nothing adventurous happened. Soon the band split up. But in 2014, original members Aleksey ‘A.V. Grievous’ Gagarin and Sergey ‘D. Akron’ Florin decided to reform the band. They were joined by bass player R. Pickman, and together they recorded and released This Dead Is World, their official debut full length studio album, which saw the light via Endless Winter, one of the most impressive Doom-laden labels from Russian soil.
About one year and a half after that first release, the very same label kindly offers us, dearest audience, the sophomore full length album, which is called Ephemere. This time joined by a fourth musician too, being guitar player Z.T.S. (serenades to the dead), the trio A.V. Grievous (bitter laments), D. Akron (keys to Purgatory) and R. Pickman (tragic lutes) became a quartet. They recorded some new material (and stuff that was written before as well, by the way, but not decently recorded yet) in the Pickmaland Studio (owned by R. Pickman, who took care of the final mix and mastering, as The Mighty Drunk Sonic Wizard) and at the studio Grampa’s Lair during the first months of 2017. The result is a collection of six lengthy compositions (nine to twelve minutes of duration) and a short outro (with piano and fine percussions). The CD comes in an edition of 300 copies, including an eight-page booklet, which contains the lyrics (in English) and quite sober yet expressive visual artwork.
The album totally, deeply, convincingly overwhelms as from the first song, which is the title track. This is Doom with capital ‘D’! …And Funeral Doom with capital ‘FUNERALDOOM’! Despite lacking any form of originality (but I will repeat what I say a lot: f*ck originality, as long as the final quality is beyond expectation – here it is the case once again, so ignore the lack of being renewing – Ivan), I have been impressed each time when I listened to that opening composition (as well as the others, by the way). It has all ingredients that are necessary, and those ones are just perfectly balanced, presented and performed: ultra-heavy guitar and bass riffs, melancholic acoustic guitars, pounding drum patterns, ultra-deep growls, hypnotic keyboards / lots of variety in structure and speed / a sound so full and monumental / and song writing that reeks of suffering, desolation, depression and emptiness. Let’s go somewhat deeper into each of those details.
-) the atmosphere is truly oppressing, depressing and cold. There’s a suffocating smog being created, a poisonous mist that asphyxiates. Every remnant of joy or happiness has been banned; the only pleasure is that masochistic feeling of loneliness, loss, sadness, mental illness and suicidal longing. Within the more melancholic excerpts, rather than the angry ones, self-pity prevails; the harsher parts are like an expression of frenzy and madness. But in all cases, the keyword is like any definition that means the opposite of happiness. The sound quality strengthens these feelings.
-) that production indeed is focusing on negativity and man’s disgusting existence. All instruments are nicely balanced, yet with quite a raw, unpolished, even swampy sound mix. Electric and acoustic guitars and the synth lines are put on the foreground, yet the whole rhythmic instrumental session remains important, permanently pushing and hammering. It represents the human kind, waiting for the end, without knowing that the end is near…
-) speed-wise the whole album differs from extremely slow to even slower. Doomy parts are injected by other decelerations. But Suffer In Paradise succeed to grab the listener’s attention the whole of the time, partly because of the subtle changes in melody, as well as via the many levels and permanently evolving structures of the hymns. Each time when dissecting the album, new elements seem to get born, being brought in a perfected symbiosis. For sure it sounds enormously organic – no forced or trendy intermezzi allowed – and that’s (another) surplus. And once, only one in a while, there is something like an acceleration, angry and malignant, devastating and merciless – cf. the semi-outbursts at the end of The Wheels Of Fate, for example.
-) and about the instrumentation I can go quite deep into the matter, but just float away by the grandiose interplay of all those elements, smoothly canalised into a natural elegance, lake thousand voices turning to a one-vocal choir…
It would be too easy to dissect each single chapter (no, actually, it would not at all, to be honest), but let the Music(k) speak for itself. I’ve always thought that the Russian Funeral Doom scene is one of the best, and Suffer In Paradise are another proof that I am (always) right. Ephemere makes me smile and weep at once, and that’s what Funeral Doom Metal is supposed to do, supposed to be, supposed to achieve.
85/100
ConcreteWeb Apr 2018
Aleks Evdokimov — SuuM (interview)
SuuM is a new name in Italian doom underground: they gathered in Rome in 2017, and the debut “Buried Into The Grave” appeared in February 2018 on Russian label Endless Winter. Probably I could skip it but there are two familiar persons in the lineup, they are Mark Wolf who also sings in great doom band Bretus and mister Painkiller who plays guitars in Fangtooth.
It’s hard to tell if it’s a kind of “star lineup”, but at least we have guarantees, that men know well how to provide proper traditional doom. I’ve got in touch with Mark to uncover few facts about SuuM.
Hi Mark! How are you? What's going on in SuuM camp?
Hi Aleksey! In SuuM camp everything is going well, “Buried Into The Grave” came out a few weeks ago. The perfect soundtrack for a nocturnal walk in cemetery. The reviews have been full of praise and reactions have been mostly very positive, we have received a lot of appreciation from zines, web zines and doom maniacs. Totally unexpected. We are preparing for some Doomed Rituals and the promotion of the album goes on.
Okay, SuuM is pretty fresh outfit, we know you from Bretus and Painkiller is from Fangtooth, but what about the other guys? How did you gather under the Doom Cult tattered banner?
The line up is completed by Rick and Marcas. Rick (Drums) was the drummer of an historical Hardcore band, Bloody Riot (Italy), Marcas (Bass) has other experiences in some rock / heavy metal bands.
What made you take part in one more doom band? What's your motivation? Do you feel you have something new to say in this genre?
Everything was born spontaneously, I've known Painkiller for a long time, he was born in Sicily, I'm from Calabria, we have shared the stage many times in the past. For various reasons we both live in Rome, we met Rick and Marcas and from the first rehearsal the right alchemy was created. There is no particular reason behind this choice. I think Doom needs to stay in the depths of the rock/metal scene, it's not a mainstream music and it never will be. What drives me and the other guys in the band is the desire to continue to play this music with the right attitude. Basically we just play music we want to listen to ourselves.
By the way, how do you feel an essence of doom metal? Bretus deals with horror stories, and it seems that SuuM isn't faraway from this topic.
I think Bretus and SuuM are different both musically and in lyrics, surely it would not make sense for me to play in two similar projects.
And essence of doom? What is it for you?
It's a state of mind, the doom must be breathed and must be lived, it's not just a musical genre. It is the mirror of soul. Soul is the most important thing when playing this music.
The latest Bretus album “…From The Twilight Zone” is vintage sounding tribute to old thrillers, and its sound suits well this concept. What did influence on SuuM heavily overloaded sound? Why did you stop on it?
Well, as I said Bretus and SuuM are two different bands with different approaches and sounds.
In Bretus you can find also 70's Rock, Psychedelia, Blues. SuuM play old school Doom Metal in an instinctive way , there is some death metal influence in the riffing. Painkiller, Rick and Marcas have their own background. SuuM and Bretus play doom music in two different ways, this allows me to try different vocal solutions, this is what I need.
But in the same time your manner of singing is pretty recognizable. Do you mean what you put different efforts or energy in singing for each band?
The energy I use is the same for both bands but the lyrical themes are different.
What kind of lyrics did you record for SuuM? How is it important for you?
With the use of the metaphors we describe the horror that surrounds us every day. I have always been interested in the dark side of the things. Some of the lyrics are introspective and many of these have been influenced by some things happening in my life.
Did you record “Buried Into The Grave” in the same studio as Bretus' “…From The Twilight Zone”?
No, “Buried Into The Grave” was recorded at the Devil's Mark studio in Rome by Marco MT from Demonomancy (Black Metal band).
“…From The Twilight Zone” was recorder at Black Horse Studio in Catanzaro.
How did you spend the record session at the Devil’s Mark Studio? How many days did you have there?
The recording sessions were very fast (two days), it was a full immersion, we wanted to get a sound very close to what we are in our live shows. What you can hear today is exactly the sound of SuuM. Every single riff, arrangement or vocal line took 100% of our time and devotion.
After being so long in Italian underground, how do you see it now? Does the life of bands become easier?
Well Aleksey, as you know there are many excellent bands in Italy, no need to mention them, they are almost all present in your doom encyclopedia (compliments again for Doom Metal Lexicanum).
There is a lot of support among many bands, there is a great scene but there are few places to play live shows compared to the rest of Europe.
Both Bretus and SuuM new album were released by Russian label Endless Winter, don't you feel disappointed that the albums don't appear on Italian labels? I guess that Bretus “The Shadow Over Innsmouth” was released by BloodRock Records, right?
We are not disappointed, is not necessary to have a release by an Italian label, we are comfortable with Endless Winter and Hellas Records, they are serious people who do their job with passion. However in the future anything can happen.
For the moment we are satisfied with this solution, this is the most important thing.
What are your ambitions towards SuuM? How do you see the band’s prospects?
Doom is known as the genre that kind of celebrates itself, generally you don’t choose to play this music to make it big. We are not innovators, we don't invent anything, we want to play only Doom metal in a primordial way.
“Buried Into The Grave” was released just a pair of months ago, but what's about new material? Do you already have an inspiration for the next record? Or maybe you are focused on the next Bretus album?
We have already some new stuff, I want to clarify that SuuM do not depend only on my inspirations, I would like to specify something, SuuM is not “my” project, SuuM is “our” band (Painkiller, Rick, Marcas, Mark Wolf). In the band we are all 100% involved in the creation of songs.
At the moment the priority goes to live shows, surely we will perform as many live shows as we can, we will publish soon the details about the new next Doomed Rituals.
With Bretus we are working on the new album, we’re halfway through writing our fourth record right now, we hope to enter the recording studio next year.
Anyway the two bands will not be hindered, each band follows its own path.
The second Bretus album was whole based on Lovecraft’s story, the third one is collection of old thrillers and horror movies. What’s your plan for the fourth one? Do you already have a general idea?
We have some ideas but it's too early to reveal it, it will certainly be something different, probably it will be a concept album, we will see...stay tuned and Doomed.
Mark, thank you for the interview. How would you like to sum up our interview?
Thank you for the interesting interview Aleksey, follow the Sabbath...Doom for the Doomed!
Outlaws of the Sun Apr. 2018
Chris van der Aa — SuuM “Buried Into The Grave”
Italiaanse doombands kunnen bij mij in het algemeen niet zo veel verkeerd doen. Werd ik eerder dit jaar al verrast door Black Capricorn, nu is in het vergelijkbare segment SuuM aan de beurt. In tegenstelling tot de zojuist genoemde landgenoten is dit een nog nagelnieuwe band, die pas vorig jaar ontstaan is. Buried Into The Grave is het debuutalbum, dat vorige maand verscheen.
Direct vanaf de eerste tonen van Tower Of Oblivion hebben muziek en sfeer me beet. Dit is precies die klassieke epische doom met de lome en wat karige muzikale invulling, verheven, galmende zang en old school beklemmende sfeer waar ik zo gek op ben. Je kent het wel: onweer, klokgelui, lome, maar zware riffs, sloom en doeltreffend getrommel, en zo'n typerende theatrale vocale voordracht zoals alleen de echte ouderwetse doombands dat kunnen. Zelfs zo'n spaarzame, voorzichtige tempowisseling hoort daar bij, en zorgt voor wat levendigheid, zoals ook even later Black Mist laat horen.
Natuurlijk is SuuM schatplichtig aan de oude helden van Nemesis/jaren '80 Candlemass, al ligt het tempo gemiddeld nog een stuk lager denk ik zo. De muziek doet me - vooral vanwege die vocale voordracht en de authentieke sfeer - verder vooral denken aan het Nederlands/Belgische Hooded Priest; ook die bedompte, wat occult aandoende sfeer is overeenkomstig. Verwacht hier dus geen death-gerichte doom metal of een 'moderne' stoner- of sludge-benadering, maar onvervalste, pure doom.
De nimmer aflatende, voortsleurende riffs van Black Mist en titelnummer Buried Into The Grave (heerlijk die Saint Vitus-achtige wah-wah in de leads) trekken me verder mee de onaantrekkelijk diepe krochten van de meeste duistere belevingswerelden in. Last Sacrifice (met een bij vlagen verrassende inkleuring) en Seeds of Decay (misschien wel het meest donkere nummer van het album, en stiekem een persoonlijk favorietje) zetten deze onheilspellende tocht moeiteloos voort. The Woods Are Waiting is een fraai-smerig instrumentaaltje, dat opbouwt naar het onvermijdelijke einde. Helaas is Shadows Haunt The Night niet die epische knaller waar ik op gehoopt had, maar toch een vertrouwd klinkend slotakkoord.
Laat de 'serieuze' kenners maar zeuren dat deze muzieksoort achterhaald en niet origineel is. Dat interesseert me geen reet, want in muziek zoals SuuM die maakt ligt mede mijn basis voor de liefde voor deze sombere muziek. Natuurlijk was Black Sabbath de eerste, en is alles daarna al gedaan. Maar ik ben altijd oprecht verheugd wanneer ik een band hoor die nog in die authentieke stijl durft te musiceren. Dit is gewoon gaaf in al z'n eenvoud!
Wings Of Death Apr. 2018
Crypt Of Fear — Suffer In Paradise “Ephemere”
Ci ritroviamo a parlare dei Suffer In Paradise grazie al loro secondo disco, seguito del debutto "The Dead Is World" trattato dal sottoscritto l'anno scorso, pubblicato nuovamente dall'attenta Endless Winter. La band mostra di voler fare sul serio con "Ephemere": le coordinate stilistiche rimangono sempre nell'ottica di quel funeral doom che preferisce la melodia e l'atmosfera agli spigoli e alla pesantezza, ma è stato fatto un passo deciso in direzione di sonorità più nuvolose, memori di certi Shape Of Despair, un'influenza che sembra avere un certo peso su questa nuova opera.
Dalle prime note di oboe fino alla fine si nota come la band si sia lasciata alle spalle l'aggressività, di cui sono rimasti giusto il growl sempre più raro di A.V. e qualche passaggio più death nella movimentata "Wheel Of Fate". Per il resto, ascoltare "Ephemere" è come immergersi in un mondo etereo, dove le nubi talvolta ci permettono di intravedere un debole fascio di luce, altre ci immergono nell'oscurità totale. Gli arrangiamenti orchestrali sono molto più centrali che nell'album precedente, rendendo le tastiere la vera ossatura delle composizioni dei Suffer In Paradise. La scaletta mette in mostra una band che è ancora nella fase di ricerca del proprio suono, e non posso negare che l'insistenza nel ripetere certe melodie non sempre si sia rivelata la scelta più efficace, anche se mi rendo conto che sia stata ponderata al fine di rendere più incisiva l'atmosfera. I Suffer In Paradise vogliono che l'ascoltatore si immerga in "Ephemere", limitarsi ad ascoltarlo non basta.
Un'ultima nota sulla veste grafica: se all'esterno abbiamo una di quelle copertine che non riportano né titolo né nome della band, ma che puntano a stupirci per la loro bellezza (e sia messo agli atti che adoro questo tipo di copertine), all'interno ci troviamo una piccola sorpresa. Basterà aprire la confezione per trovare un track by track firmato dalla band stessa, che in poche righe descrive ogni composizione, aggiungendo anche qualche piccolo aneddoto, senza mancare di tessersi le lodi da sola. Non certo una formazione che pecchi in modestia, insomma; in questo modo diventa chiaro quanto i musicisti coinvolti credano nel progetto.
Per quanto mi riguarda, i Suffer In Paradise si stanno affermando come un gruppo su cui si può contare; forse non avranno ancora raggiunto la loro forma definitiva, ma se si soprassiede su questo punto e se siete in cerca di melodia nel vostro funeral doom, non possono certo deludervi.
Aristocrazia Webzine Apr. 2018
Vitus-Frank — SuuM “Buried Into The Grave”
In Italië schieten de doombands de laatste jaren de grond uit, met vaak leuke resultaten en een enkele uitschieter. In het geval van SuuM kan dit in de categorie leuk resultaat worden geschaard.
Met onweersgeluiden, een huilende wolf en een kerkklok (die op het laatste nummer ook wordt gebruikt), wordt de toon direct gezet bij het openingsnummer Tower of Oblivion. Voeg daarbij de op een griezelige manier gebrachte vocalen van Mark Wolf en je hebt een duister, obscuur en horrorachtig sfeertje geschapen. Dat sluit goed aan bij de zes langzaam voortslepende nummers, want The Woods are Waiting is een ‘lang’ instrumentaal en niet interessant tussenstuk. Echte uitschieters kent het album niet, hoewel het titelnummer Buried into the Grave het lekkerste klinkt. Wat af en toe minder lekker klinkt, zijn de wat haperend klinkende drumbreaks. Niet altijd even soepeltjes. Maar dan komt er weer zo’n lekkere logge riff en doomen we weer vrolijk verder.
Als we het instrumentale nummer wegdenken, is er amper dertig minuten speelduur op dit debuutalbum en dat is wel wat aan de weinige kant, zeker voor een doomplaat. Een album dat overigens zowel op cd als op cassettebandje verkrijgbaar is. Een leuk, maar niet wereldschokkend debuut van SuuM.
76/100
Zware Metalen March 2018
Nick Harkins — Graveyard of Souls “Mental Landscapes”
Spanish Atmospheric Death-Doom outfit Graveyard Of Souls are nothing if not prolific; 'Mental Landscapes' representing their fifth full length release since their 2013 debut, 'Shadows of Life'. A pretty respectable output by any standards. Fortunately, though, quality is not sacrificed for quality. Entirely instrumental, it's an album that creates powerful soundscapes of atmospheric Death-Doom without the aid of vocal accompaniment. It takes equal amounts of chutzpah and talent to successfully pull off an instrumental album, but Graveyard Of Souls have demonstrated they have plenty of both.
Opener, 'Cloud Fields' sets the atmosphere with melodic synth effects and a haunting arpeggiated acoustic riff that creates a subtle, Floydian feel, before a mid temp Doom riff kicks in and takes the track into heavier territory. There's an infectious, melancholy groove to the music that is hard to resist, ensuring the listener soon stops wondering when the vocals are going to kick in and appreciates the vast sonic vista Graveyard Of Souls have created.
And the opening track is no fluke. Throughout the album, the power and menacing fury of Death-Doom is caressed by slower, more progressive interludes, while synths add further depth. It's a winning formula that is used with aplomb, ensuring there is no filler on the album. It's a brave move to keep an entire album instrumental; a move that arguably exposes the quality of the music to a greater than normal degree of scrutiny. There's nowhere to hide; no big, bellowing roar to drown out any weaknesses, no sorrowful lyrics to pull on the emotions. And without doubt, Graveyard Of Souls have enough in the locker room to deliver.
There's a nice variety and balance to the album with element of Space Rock on the excellent 'En la oscuridad esta nuestro hogar' with its swirling, trippy synth effects complimenting the brooding energy of a monstrous Death-Doom riff, whilst even amongst the atmospheric feel of much of 'Mental Landscapes', it's no soft touch: there is no shortage of venom on the album. 'Way of Hell', for instance, is an aptly named assault on the senses. With a crushing riff, frenetic drumming, and some impressively wild soloing, it builds to a raging crescendo that shows that Graveyard Of Souls can create a subtle, atmospheric sound, but certainly have plenty of fire in their bellies.
Overall, this prolific outfit have delivered a fine concoction of instrumental Death-Doom that is varied and brimming with sorrowful atmosphere that has a certain grandeur to it. And the good news is, based on recent output, it might not be too long before we have another album to enjoy. It may not satisfy the demands of fans of the heavier end of the Doom spectrum, but if you like your Doom laden with atmosphere, 'Mental Landscapes' certainly delivers.
8.5/10
Doom-metal.com March 2018
Neil Arnold — SuuM “Buried Into The Grave”
A great album cover, a chiming bell, pouring rain and a fizzing doom-metal riff. This is how we’re introduced to Italian doom metal act Suum.
Buried Into The Grave is the debut artefact from this Rome-based quartet, who are Mark Wolf (vocals), Painkiller (guitars), Marcas (bass) and Rick (drums), and it’s the wails of Wolf which impress me most about this decent doom metal adventure.
Hints of Solitude Aeternus and Candlemass spring to mind, with Wolf opting for the haunting, sorrowful wails instead of anything remotely gnarly, while his merry band of miserable followers conjure up enough dark spells of disorder to keep me captivated.
Again, like the recently reviewed Madvro album (Invocation Of High Wizard), this is very much harkening back to the creakin’ vintage style of doom metal which I adore so much, with massive slabs of riffery, fizzing morose leads, weighty sticks of cavernous cavorting and clumpy bass lines that shudder the spine. Indeed, the whole scenario concocted by these Italians is akin to standing at the oaken door of an imposing haunted mansion with every creak of the door and then the floorboards being acted out by the instruments on offer.
Thunder in the skies, a sense of dread, a shadow in the car, a black cat on the stairs, and the dismal creak of a coffin lid somewhere in the depths of the building, Suum really are the new masters of whisperings séances, rainy contortions and buzzing despondency.
Opener ‘Tower Of Oblivion’ is a fine exercise in lumbering brilliance; the percussion sounding like the eerie footfalls of some over-sized and monstrous house servant as Wolf warbles with agonising aplomb. The dark riffery is so splendidly Gothic as ‘Black Mist’ rumbles with added dollops of angst, with chills caused by Painkiller’s murky traipse as Marcas’ bass comes creeping through the corridors like some reanimated corpse. This is genuinely creepy doom metal of the highest order, prompting one to form a cult and hide out in the attic of the aforementioned house!
The title track simmers initially, but soon begins to roll like thick, coating mist from a remote moor. Wolf’s vocals are given extra sinister sauce as his wails turn to snaps of despair, accompanied by an equally distressing solo that soars and floats like a belfry of bats. Epic stuff.
The rest of the tracks come thick and stodgy. The disconsolate chimes of ‘Last Sacrifice’ trickle into the stark yet commanding buzz of ‘Seeds Of Decay’, while instrumental ‘The Woods Are Waiting’ is as eerie as its title suggests. The latter is almost wistful yet ghostly by design, and acts as a mere atmospheric interlude before the menacing ‘Shadows Haunt The Night’ comes like an earthquake, producing bone-shaking contractions and claps of thunder.
Wolf stands like some preacher of evil in the mist. His Gothic streams rain down on the ritual that has now begun in the tower, as behind him his coven nods in agreement, with each chug and drum thud a gesture towards the unholy forces at work. Indeed, this is some scary shit, and is up there with Druid Lord, Sherpherds Crook and Bestialord for providing some of the best chills of the year so far, in turn transforming your holy water to muck and your brains to dust.
8/10
Metal Forces March 2018
Wolverine — SuuM “Buried Into The Grave”
Non male questo disco d’esordio dei romani Suum recante titolo “Buried Into The Grave”, un disco decisamente completo all’intero del quale la band sa bene dove colpire nel segno forte dell’esperienza pregressa ed individuale che accomuna ciascun singolo membro con le proprie esperienze personali militate in altre realtà musicali. L’ottima congiunzione delle influenze predette vanno a congiungersi in questo lavoro e non lasciano molti spazi per comprendere l’impronta marcata a sangue dei Candlemass e un po’ anche dei più lontani Sabbath e Cathedral. L’impronta prende subito corpo se si tiene in considerazione da un lato, quelle che sono le andature, sempre ristagnanti e mai troppo fangose, piuttosto nitide nei contenuti, il buon clean che a tratti assume connotati più aggressivi, e gli imponenti lavori di chitarra tra ritmiche e lead solo tutti da assaporare. Indubbiamente l’ascolto propende su un contesto piuttosto spettrale tra quelli che sono i suoi contenuti che marcano intensamente la personalità del disco. Ottime le andature di chitarra che appoggiano appieno il clean e l’espressività della parte cantata che in alcuni casi dà l’impressione di raggiungere la sua massima espressività e coinvolgimento. L’opener “Tower Of Oblivion” è un esempio di quanto sopra accennato con in più l’ottimo free pass servito dalla chitarra nell’oscuro quanto inteso riff d’apertura. Si distingue per una buona dose di personalità anche la successiva “Black Mist” il cui punto forte indubbiamente ricade nuovamente sul lavoro della chitarra e sull’incredibile intensità del clean, ai limiti dell’ipnotizzante; “Into To the Grave” sembra quasi rallentare ulteriormente la marcia sin ora acquisita ma l’incessabile quanto espressiva forza del clean non fermano in alcun modo il persistere della forza e della grinta che il quartetto trasmette incessantemente; ottime anche “Last Sacrifice” e la successiva “Seeds Of Decay”, quest’ultima maggiormente più riflessiva rispetto alla sua precedente; due brani che non smentisco la buona impressione sin ora offerta dal combo sia sotto il profilo espressivo che costruttivi-strutturale; l’intermezzo strumentale di “The Woods Are Waiting” anticipa la conclusiva e forse più minacciosa “Shadows Haunt The Night”, uno dei migliori brani del platter a detta di chi scrive proprio per l’intensità e la carica trasmessa sia dal sound in primis che dall’incredibile struttura del brano in sé. Un ottimo debutto che non tarderà di certo a riconoscere a questa band un meritato quanto auspicato ruolo di importanza sostanziale per questo genere.
77
Metalwave.it March 2018
Tiago — SuuM “Buried Into The Grave”
“Doom for the Doomed”, essa é a descrição mais apropriada que um álbum como Buried Into the Grave, o debut da banda italiana Suum, poderia ter. Lançado no dia 10 de Março via Hellas Records e Endless Winter, o álbum traz o necessário para agradar aos apreciadores do Doom Metal clássico e obscuro.
Sete faixas que transitam por atmosferas torpes e sombrias, lançando riffs pesados e impiedosos na direção do ouvinte e golpeando incansavelmente com seu instrumental denso e macabro. Buried Into the Grave não deixa margem para dúvidas em relação ao que a Suum tem à oferecer. Há uma variedade de solos que surgem para intensificar a experiência sonora criada pela banda, assim como passagens em que sua mente mergulhará dentro desse lugar medonho e condenado que pinta a paisagem existente nessas sete faixas.
Se o instrumental é responsável por dar forma a tal criatura de proporções abissais, o vocalista Mark Wolf é sem dúvida o responsável por dar vida à ela. Trazendo performances que vão de linhas próximas às executadas pelo célebre Scott Reagers e outras que remetem à algo vindo do Candlemass e Reverend Bizarre, Mark entrega momentos repletos de feeling, mergulhando numa angústia e perdição que reforçam a sensação propagada pelo instrumental, além de soltar a voz e executar berros cavernosos e gélidos na faixa título que eu gostaria de encontrá-los em maior presença no álbum.
Buried Into the Grave é completamente agradável e tenho certeza que tem muito à oferecer à todos aqueles que apreciam o Doom Metal em seus moldes clássicos.
Doombringer March 2018
Stefano Cavanna — SuuM “Buried Into The Grave”
La sempre fertile scena doom romana continua a sfornare band di sicuro spessore, indipendentemente dalle sfumature assunte dal genere in questione.
I Suum se ne escono subito con un full length devoto al 100% al versante più classico del doom, quello che trasse i primi impulsi vitali dai Black Sabbath per poi esser ulteriormente diffuso nell’etere metallico dai vari Candlemass, Saint Vitus, Pentagram e Solitude Aeturnus.
Ovviamente perché ciò funzioni alla perfezione sono necessari un riffing puntuale ed incisivo, garantito in questo caso salirono Painkiller (Fangtooth) ed una voce stentorea atta a declamare con chiarezza le funeste visioni della band capitolina, le cui funzioni vengono affidate a Mark Wolf, che già conosciamo quale vocalist degli ottimi Bretus.
Collocando tutti i tasselli al proprio posto i Suum, con Buried Into The Grave, offrono sette brani incisivi il giusto, contenendo in maniera opportuna la lunghezza e compensando la fisiologica vicinanza ai propri modelli con il songwriting efficace di chi affronta il genere con la giusta dose di competenza e devozione.
Premesso che è difficile per chiunque raggiungere i livelli delle band poc’anzi citate ricalcandone il raggio d’azione, la prova dei Suum possiede tutti i crismi per soddisfare chi delle stesse riconosce l’inconfutabile grandezza: per cui le dolenti cavalcate che si dipanano dalla prima nota di Tower of Oblivion fino all’ultima di Shadows Haunt the Night (con la sola breve pausa costituita dallo strumentale The Woods Are Waiting) non sconvolgeranno le gerarchie del doom metal, ma allo stesso tempo gratificheranno senza riserve i non pochi amanti del doom dai connotati più tradizionali.
7.5
Iyezine March 2018
Francesco Scarci — Suffer In Paradise “Ephemere”
E se anche il paradiso può essere visto come luogo di sofferenza, allora qualcosa di malato dietro a questi russi Suffer in Paradise ci deve pur essere. 'Ephemere' è il secondo album rilasciato dal combo di Voronezh dal 2014 a oggi, quando si sono riformati per la seconda volta, dopo un primo scioglimento tra il 2010 e il 2014 appunto. Il genere di cui si fanno portatori è, manco a farlo apposta, quello del funeral doom, d'altro canto stiamo parlando di una band sotto contratto con la Endless Winter. Pertanto, negli oltre 60 minuti a disposizione, diluiti su sei vere tracce (c'è anche una breve outro), i quattro musicisti si lanciano in inni votati alla disperazione umana. L'opener, nonché title track dell'album, è un tunnel infinito senza fine, dove nemmeno il classico lumicino di speranza è dato al condannato a morte. Una song sfiancante che, pur non viaggiando su toni pesanti, affida tutto il suo essere estremamente opprimente, ad una forte componente atmosferica che trafigge l'anima, grazie ad un incedere cosi lento e deprimente, che mi lascia affranto senza parole. E l'aria asfissiante in stile Evoken non ci abbandona nemmeno nella seconda "My Pillory", dove anzi l'ambientazione si fa ancor più cupa, con un riffing appena accennato, un break corale, in cui sembra il coro di angeli depressi a prendersi la scena, ed infine il classico growling primordiale. Poi sono i tipici cliché a palesarsi: l'immancabile organo da chiesa, la tipica aura funeral e qualche break acustico che ci permette di emergere almeno per alcuni secondi dalle tenebre più profonde. Addirittura una sorta di assolo chiude una canzone che risuona come un invito alla cessazione della vita. L'inizio di "The Swan Song of Hope" si offre con più eleganza almeno fino a quando rientra in scena il growling possente di A.V. in una song sicuramente tanto maestosa quanto ridondante a livello ritmico che lentamente cresce d'intensità, di potenza, di personalità in un finale da brividi che trova modo di rompere anche le strutture compassate del funeral doom con raffinate partiture ritmico melodiche. Si ripiomba comunque nelle viscere del mostro con "The Wheels of Fate", un altro pezzo all'insegna della monoliticità di fondo di un suono coerente dall'inizio alla fine. Un muro di cemento contro cui scontrarsi e dove lasciare la nostra vita ormai privata di ogni significato. Un pianoforte apre la catacombale "The Bone Garden" che, a parte palesare una certa debolezza a livello del drumming a causa di una programmazione troppo sintetica, si dilunga in aperture di strumenti ad arco che ne enfatizzano il pathos drammatico. Ancora suoni a rallentatore con "Call Me to the Dark Side", l'ultima marcetta funebre di quasi dodici minuti a cui seguono a ruota i due di outro che chiudono un album a dir poco oscuro e pachidermico, ma alla fine, sicuramente estenuante. Only the braves!
70
The Pit of the Damned March 2018
Das Testament — Nordlumo “Embraced By Eternal Night”
In un panorama affollato come quello del funeral doom le probabilità di imbattersi in progetti mediocri è piuttosto alta. Con la facilità con cui è possibile registrare un disco in questa nicchia dove la tecnica non fa necessariamente la parte del leone, semplicemente installando un programma apposito e munendosi di una semplice interfaccia audio, quanto appena detto non deve sorprendere. Al contrario, quando si ha l'opportunità di ascoltare un album, seppur non perfetto, che riesca in qualche modo a distinguersi dalla moltitudine, sono sempre momenti, mi si perdoni l'ironia, felici.
Il debutto del russo di Murmansk, Nordlumo, rientra nella ristretta cerchia dei progetti da tenere d'occhio nei prossimi anni, se non tanto per le sue intuizioni compositive, che nel caso migliore svelano una conoscenza profonda del panorama doom presente e passato, quanto per le sue ottime doti di arrangiatore. Il perché è presto svelato: "Embraced By Eternal Night" non è un capolavoro, tutt'altro, tuttavia riesce nell'impresa di ribaltare una prima impressione negativa, causata da un bilanciamento del minutaggio non efficace, con una prestazione encomiabile che emerge dopo ascolti ripetuti.
Aprire un disco con una introduzione di oltre otto minuti seguita da un pezzo di ventitré non è una idea consigliabile nell'era del consumo rapido e indolore. "Devotion", la composizione colpevole, si difende bene, ma divaga senza costrutto troppo di frequente per giustificare una durata così estesa, che, invece di riprendere le tematiche dell'intro e svilupparle compiutamente, si perde in una volontà precisa di trasformare un'interessante proposta al limite del death-doom in una marcia funebre con poche idee.
"Scripts", però, cambia le carte in tavola e in tredici minuti netti racconta un disco diverso: maggiormente vario, dalla produzione limpida, dall'esecuzione strumentale impeccabile, soprattutto per quanto concerne la sezione ritmica, con il basso prepotentemente sugli scudi; infine dalla fluidità così naturale e avvolgente che i movimenti melodici si susseguono a devastanti introspezioni quasi ambient senza che vi sia soluzione di continuità. Un mutamento repentino che spacca "Embraced By Eternal Night" in due, dove il secondo tempo giganteggia sul primo.
"Dreamwalker" attinge da sonorità gotiche, riprendendo l'intermezzo di pianoforte e voce pulita della traccia precedente, concedendosi il lusso di un assolo a coronare il climax sonoro, che — a margine — solleva la prestazione delle chitarre, fino a quel punto abbastanza piatta. L'outro "Millenium Snowfall", sorretto da droni di sintetizzatori VST (Virtual Instrument), che a un primo ascolto sembra un riempitivo obbligato, invece rilassa i sensi prima della notevole cover del pezzo dei Colosseum, "Weathered", tratto dal loro disco di debutto; Nordlumo approccia il materiale con personalità e perizia, senza limitarsi a copiare.
La scelta (voluta o forzata, non è fondamentale) di una produzione trasparente, pur sottraendo uno degli attribui essenziali del funeral, ossia la pesantezza dell'essere, si rivela infine vincente, ponendo in risalto la compattezza degli arrangiamenti, che, talvolta, nella semplicità trovano un'arma potentissima.
In conclusione, "Embraced By Eternal Night" è caratterizzato da alcune incertezze dovute alla sua natura di opera prima. Tuttavia, avesse beneficiato di un lavoro di editing migliore, in guisa tale da ridurre le ripetizioni e porre maggiore enfasi sulla costruzione di tracce contraddistinte non solo da melodie dilatate ma anche da riff possenti, ora staremmo parlando di un album ben sopra la soglia della sufficienza. La speranza quindi è che "Embraced By Eternal Night" sia un punto di partenza, un primo tentativo adatto a entrare nei meccanismi di questo genere complesso, per un progetto che mostra notevoli potenzialità.
Aristocrazia Webzine March 2018
Nick Harkins — Aporya “Dead Men Do Not Suffer”
'Dead Men Do Not Suffer' represents the debut album of Aporya, who hail from the metal stronghold of Brazil. Given their relatively short history, and limited social media exposure, Aporya are something of an enigma, at least to those of us unable to speak Portuguese. That said, as useful as social media is in making it easy to discover new music, and for fans to connect with bands that interest them, sometimes it's nice to play an album with very little knowledge of the artists that created it.
For those of us of a certain vintage, whose necks begin to stiffen if we bang our heads too hard, it's a little like those distant days when a friend would copy an album by a band you'd never heard of onto an old C90 cassette for you, hand it to you in the playground/common room/pub and say 'here, listen to this'. Of course, sometimes those albums sucked, leaving you shaking your head at your well-meaning but misguided friend. Sometimes they even mangled up your cassette player, leaving you to unreel reams of exposed tape. But sometimes they were a joy; an undiscovered gem that blew your mind and left you desperate for more.
So, which of those categories applies to Aporya? Well, they're certainly not going to mangle up your cassette player either literally or metaphorically. 'Dead Men Do Not Suffer' begins strongly with melancholy opener, 'Blood Rain'; a sorrowful instrumental number that gets the album off to an atmospheric start. This is immediately followed by a burst of outright ferocity with 'Cry of the Butterfly'. The contrasting loud/quiet/loud technique has been used many, many times in metal and far beyond, but there is a genuinely stark contrast between the two tracks that is quite effective. With a crushing riff, harsh vocals and use of blast beats at times, it's a brutal Death-Doom juggernaut that smashes through any lingering melancholy feeling created by the album's gentle introduction.
As the album progresses, there are many such changes of pace, though none quite so effective as the crushing 'Cry of the Butterfly'. With some Trad Doom elements, calmer passages with keys/piano effects, and some impressive solos, it's certainly a solid debut. The album does, however, peak at around the half way point, and seems to run out of ideas a little towards the end, albeit title track, 'Dead Men Do Not Suffer' does close proceedings nicely with a haunting melody in keeping with the plaintive beginning.
Aporya have delivered a solid debut that is satisfyingly gloomy with strong Melodic Doom and Death-Doom influences. Whilst not a classic first album, it is enjoyable and shows promise for more to come on future releases. A brilliant first half is slightly let down by several more formulaic tracks, but overall an agreeable first release, nonetheless.
7.5/10
Doom-metal.com March 2018
Frazer Jones — SuuM “Buried Into The Grave”
Old school doom à la Candlemass, Solitude Aeturnus and Reverend Bizarre is becoming a bit of a rarity of late replaced by a much harder more abrasive form of the genre with harsher style vocals, thankfully though that classic doom sound of yore can still be found if your willing to look hard enough. One band still keeping the old school doom flame burning are Italian quartet SuuM, Mark Wolf (vocals), Painkiller (guitars), Marcas (bass) and Rick (drums), who take the traditional approach to doom, pioneered by those bands already mentioned, but bring it up to date by salting it with elements found in doom's present, something they do to great effect on their new album "Buried Into The Grave" ( Endless Winter for CD, Hellas Records for tape).
Traditional forms of doom require, above all else, a vocalist capable of delivering tones that are a little bit gothic, a touch grandiose and a whole lot powerful and in Mark Wolf SuuM have found a vocalist who ticks all those boxes. Wolf's vocals range from Bela Lugosi-ish sinister and operatic to harsh, growling and feral while retaining both power and clarity in both, his voice as much an instrument as those played by the rest of the band. Big vocals need big music to compliment them and SuuM provide huge swathes of dank, atmospheric doom to do just that, Marcas and Rick laying down a massive foundation of heavy grumbling bass and tumultuous percussion around which the wonderfully named Painkiller weaves a mixture of crunching and swirling dank and dark guitar textures. The seven songs on "Buried Into The Grave" stay very much within traditional doom territory with songs like "Black Mist", "Seeds of Decay" and "Shadows Haunt The Night" all boasting huge grooves of atmospheric doom coated in gothic tinted vocals but the band are also prepared to step out of their traditional doom comfort zone and blacken up their sound with a little modern harshness as on the excellent title track "Buried Into the Grave".
The beacon of traditional/classic doom may not be burning as bright today as it was back in the day but SuuM are making sure, with "Buried Into The Grave", that there is still a vestige of flame still flickering brightly among its ashes. Check it out ....
Desert Psychlist March 2018
Marco Donè — Premarone (interview)
Dopo avervi parlato di "Das Volk der Freiheit", secondo lavoro dei doomster piemontesi Premarone (qui la nostra recensione), non ci siamo fatti scappare la possibilità di fare quattro chiacchiere con una delle band più interessanti uscite dall'underground nazionale. Abbiamo quindi incontrato per voi la formazione della provincia di Alessandria e, come facilmente prevedibile, abbiamo parlato di musica, storia, arte e tanto altro. Eccovi il resoconto di quella che si è rivelata un'interessante e piacevolissima chiacchierata. Buona lettura!
Ciao Ragazzi, sono Marco, benvenuti su Truemetal.it. Come state?
Ciao Marco, tutto bene, grazie. È un vero onore per noi essere ospiti su queste pagine!
Avete da poco pubblicato “Das Volk der Freiheit”, il vostro secondo disco, un concept album complesso e articolato. Vi andrebbe di spiegarcelo?
Fra: Certo, con piacere. Senza la minima pretesa di formulare giudizi o sentenze, l’album sostanzialmente intende essere una riflessione sulla storia e soprattutto sull'evoluzione/involuzione sociale del nostro Paese nell’ultimo quarto di secolo. Anzitutto vorrei spendere due parole sul titolo. "Il popolo delle libertà” (ogni lettura allusiva è libera e consentita, ma ciò che più ci interessa è l’attenta considerazione del termine “libertà”) è espresso in tedesco per due motivi: principalmente vuole evocare il minaccioso spettro di un regime totalitario, ma, in secondo luogo, è anche un piccolo omaggio a un gruppo che ci ha ispirato, ovvero i German Oak, oscura formazione teutonica che all'inizio degli anni '70 pubblicò un disco dedicato alla Seconda Guerra Mondiale, proponendo un’analisi dall’interno dell’evento più traumatico della storia del ‘900 . Quanto alla struttura del disco, l'album in pratica è costituito da una breve introduzione e due ampie sezioni separate da un intermezzo dark ambient-drone. La prima parte, attraverso la citazione di vari eventi che hanno colpito il nostro immaginario, intende essere una sorta di excursus storico che trae origine dal 1992 (a questo proposito si veda il sottotitolo in numeri romani sulla copertina) e trova un apparente epilogo in questo decennio. Dall'intermezzo ambientale al termine dell’ultima traccia cerchiamo invece di concentrare la nostra attenzione sugli aspetti sociali, con riferimento al generale appiattimento culturale, motivato e indotto soprattutto dalle scelte imposteci dal trionfo di un certo linguaggio massmediatico. Il finale lascia intendere che "l'era del popolo delle libertà" non si è ancora conclusa (ecco il motivo del numero romano 201? nel sottotitolo della cover) perché coincide con un atteggiamento diffuso che, a nostro parere, trascende i personaggi che ne sono stati artefici e modelli. Questo, in sintesi, è il senso del lavoro, la cui genesi si è rivelata piuttosto complicata. Tutto è cominciato con Michele che, storpiando quasi per gioco un noto motivetto propagandistico, ha creato una sorta di jingle ipnotico da cui siamo partiti per creare il primo movimento. Sulla scia dell'entusiasmo iniziale abbiamo poi dato corpo alla struttura di base, sviluppando alcune idee e scartandone altre. Bisogna ammettere che la gestazione si è rivelata più lunga e difficoltosa del previsto, anche se alla fine soddisfacente.
La vostra proposta è estremamente personale: un caleidoscopio in musica, in cui la matrice dominante è quella psych doom, con testi impegnati, che analizzano l’attuale società italiana. In sede di recensione ho provato a definirvi con la frase “Fuori dagli schemi, lontani da ogni moda, un universo a sé stante intriso di arte, sperimentazione e coscienza sociale”, vi siete ritrovati in queste parole? Vi andrebbe di approfondire la visione in musica dei Premarone?
Fra: Ti ringraziamo per questa generosa definizione che comunque coglie alla perfezione il nostro personale approccio alla musica. Di certo il fatto di non essere più -per usare un eufemismo- dei ragazzi (anche se il nostro Mic, il più giovane e talentuoso del gruppo, la punta di diamante insomma, ha dieci anni meno di noi ed è il più aggiornato sulle nuove tendenze) in qualche modo ci facilita, nel senso che ci sentiamo esonerati dal seguire mode particolari che non siano realmente sentite, compresi i tradizionali cliché legati a certi stili musicali. Il nostro gruppo nasce dalla voglia di stare insieme, di confrontarci su ciò che ci circonda (da qui una tendenza non tanto all'antagonismo quanto forse all'analisi sociale o storica di alcuni fenomeni che ci hanno colpito), di condividere idee, di divertirci e soprattutto di fare quello che ci passa per la testa. Tutto questo poi, inevitabilmente, si riversa nella musica che facciamo.
Molto interessanti sono anche le vostre copertine, da cui è facile intuire il desiderio di lanciare un messaggio partendo dall’immagine del disco, per poi proseguire attraverso le musiche e i testi. Qual è il significato che si nasconde dietro la copertina di “Das Volk der Freiheit”?
Michele: È proprio così, la copertina raffigura il concept del disco di cui intende presentare il messaggio. Agli occhi di chi osserva appare subito evidente uno scenario di totale distruzione, dominato da una serie di macerie frutto della devastazione della civiltà. In primo piano alcune figurine evanescenti ballano e si divertono spensierate, totalmente incuranti del disastro che le circonda. Si tratta di un collage di immagini che, perlopiù, abbiamo ricavato da varie foto storiche del terribile bombardamento di Dresda ormai quasi al termine della Seconda Guerra Mondiale; tra di esse abbiamo rinvenuto anche i personaggi danzanti al centro della copertina: pensa che erano membri di un circo attivo ancora nel febbraio del '45 quando sulla città fioccavano le bombe degli Alleati! Proprio questo particolare ci suggerisce un forte richiamo metaforico all’attualità (italiana e non solo): in un clima di decadenza da fine impero, mentre tutto ci sta crollando addosso, noi continuiamo a non voler vedere la realtà, troppo presi dalle nostre quotidiane incombenze e assorbiti dalla perpetuazione di riti sociali che paiono ineludibili… Tutta la scena, infine, è sovrastata da un cielo lacerato e minaccioso, in cui sembra prendere forma uno sguardo inquietante, a suggerire che, forse, esiste una regia più o meno occulta a tutta questa catastrofe.
Viene quasi naturale chiedervi quali siano le vostre letture… Avete un autore che seguite particolarmente?
Alessandro: Domanda interessante e parecchio impegnativa… Ognuno di noi ha un proprio bagaglio di letture recenti o passate da cui spesso vengono tratti vari spunti che suggestionano i testi dei Premarone, di cui principale autore è Fra. Se permetti, però, ti rispondiamo singolarmente. Per quanto mi riguarda non ho un autore e nemmeno un genere preferito, ma di sicuro la mia predilezione va alla narrativa. Quel che mi conquista di uno scrittore è la sua capacità di raccontare storie eccezionali, soprattutto se dotate di una drammaticità catartica. Allora potrei dirti che amo i poemi omerici, come i grandi romanzieri dell’800 francese (Zola su tutti), o i maestri dell’horror quali Poe e Lovecraft, o ancora la narrativa italiana del ‘900, ad esempio nel suo filone resistenziale, di cui mi attrae il forte senso di contemporanea epicità.
Pol: Quando ero giovane apprezzavo tantissimo la narrativa e avevo gusti molto simili a quelli di Alessandro. Oggi mi rivolgo principalmente alla saggistica storica, perché sento forte l'urgenza della decifrazione del mondo in cui viviamo partendo dalla comprensione del passato. Sopra tutto, però, metto sempre Dante, che con la sua somma poesia ha già dato risposte di valenza universale nella ricerca della Verità.
Michele: Amo particolarmente la narrativa horror (Lovecraft) e Cyberpunk (Gibson).
Fra: Condivido anch'io la passione per i classici antichi e moderni, senza trascurare una certa letteratura fantascientifica (soprattutto Philip Dick). Tuttavia mi sento di aggiungere che negli ultimi tempi ho sviluppato e trasmesso ai miei soci (tanto da trasformare spesso le prove della band in gruppi di lettura) un’attrazione morbosa per un fascinoso universo letterario involontariamente trash, su cui, però, in questa sede eviterei di fornire precisi dettagli. A questo proposito, chi fosse interessato può contattarci in privato.
Come altrettanto naturale, visto l’imminente voto italiano, è chiedervi quale sia il vostro parere su questa campagna elettorale... (l'intervista è avvenuta pochi giorni prima del 4 marzo n.d.r.)
Pol: Forse è scontato dire che negli ultimi mesi abbiamo assistito a uno spettacolo imbarazzante. Non vorremmo risultare autoreferenziali, ma quando ci troviamo a riprovare “Psichedelia elettorale”, un nostro vecchio pezzo composto in occasione delle scorse elezioni politiche, non possiamo evitare di notare che la situazione, se possibile, è ulteriormente peggiorata. Ci sembra che la democrazia sia ormai svuotata del suo vero significato e non solo in Italia. È rimasto solo un involucro costituito da una serie di riti che hanno perso sostanza e le elezioni sono il più evidente di questi riti. La campagna elettorale è un teatro in cui tutti recitano una parte: i politici promettono e gli elettori sono convinti che il loro voto conti, quando invece il futuro del Paese non si deciderà certo nelle urne. Rimane il fatto che l'aria che si respira in questi giorni è davvero pesante: non ci riferiamo a un singolo partito o a un uomo politico in particolare, ma pensiamo che il vero problema sia il collasso di un intero sistema per la scomparsa di ideali in grado di sostenerlo.
Spesso si usa la frase “la classe politica è il riflesso del popolo”, se pensiamo alla realtà italiana, qual è il vostro pensiero in merito?
Pol: A nostro parere siamo entrati in un circolo vizioso. Il popolo e la classe politica che lo rappresenta hanno perso le basi culturali del loro agire: il primo si erge a detentore dei saperi anche più tecnici rifiutando il criterio stesso di competenza, mentre ogni iniziativa della seconda è ricondotta a un linguaggio e a uno spessore da chiacchiera da bar. Verrebbe naturale chiedersi (e lo facciamo spesso) quando e dove questo fenomeno sociale abbia avuto inizio, ma sarebbe un po' come chiedersi se è nato prima l'uovo o la gallina.
Tornando a parlare di musica, poco fa vi ho definito come un “caleidoscopio in musica”, quali sono le vostre influenze?
Alessandro: Ci ritroviamo alla perfezione in questa immagine. Non solo perché ben simboleggia la varietà dei nostri gusti musicali, ma anche per il suo richiamo all’immaginario psichedelico che sicuramente ci attrae. Di sicuro tutti e quattro siamo grandi appassionati di musica e ascoltatori voraci, come credo sia naturale per chiunque decida di prendere in mano uno strumento. È vero comunque che le nostre personali influenze sono parecchio differenti: si va dal Metal nelle sue principali sfaccettature, allo Stoner, al Rock degli anni ’70, alla Psichedelia, al Progressive della grande tradizione italiana e inglese, fino ad arrivare al Punk, al Grunge e a certo cantautorato…appunto un bel caleidoscopio.
Ci sono però alcuni ambiti su cui tutti convergiamo e a cui i Premarone guardano costantemente nell’intento di dar vita alla loro musica: uno di questi è rappresentato da quei gruppi che hanno tracciato vie fondamentali nella galassia del Doom, quali Pentagram, Saint Vitus, Cathedral, Revend Bizarre, Electric Wizard, Sleep, Yob e Ufomammut; altra inesauribile fonte di ispirazione sono gli anni ’70 con i fulgidi gioielli scaturiti da quell’irripetibile periodo. In questo caso sarebbe difficile stilare un elenco completo di tutte le nostre preferenze, per cui mi limiterò a fornirti un paio di esempi che riteniamo paradigmatici. Il primo è costituito da parte di quel variegato filone comunemente noto come Kraut-Rock, all’interno del quale i dischi di gruppi come Amon Duul (II), Out of Focus, Gäa, Gila, oppure i già citati German Oak, o i più heavy Silberbart e Hairy Chapter rimangono, secondo noi, capolavori di ineguagliata freschezza compositiva e vulcanica creatività. Nel secondo caso, invece, vorrei citare una band che racchiude un vero e proprio cosmo al proprio interno, tanto geniale quanto non sufficientemente considerata: sto parlando degli Hawkwind, di cui in questi giorni stiamo imbastendo una cover che ci piacerebbe proporre in qualche prossimo concerto.
Detto questo, credo che l’elemento fondamentale rimanga la voglia reciproca di trovare un punto di incontro, quindi di confrontarsi e condividere le proprie esperienze. Se, ad esempio, penso ai miei ascolti di una ventina abbondante di anni fa, mi viene in mente l’immagine del classico metallaro: Heavy Metal anni ‘80, Trash Bay Area, Death Metal svedese, difficilmente mi scostavo di lì. Intendiamoci, non rinnego nulla di quella storia, tanto che, ancora oggi, se devo scegliere un album da godermi nello stereo, andrei subito a prendere un disco dei Mercyful Fate, dei Manilla Road, o degli Exciter. Penso piuttosto che l’aver ampliato gli orizzonti sia stato un grande arricchimento, che comunque non si è sviluppato in maniera innata, ma è stato motivato dal profondo rapporto di fiducia e amicizia con gli altri membri del gruppo.
Il vostro debutto discografico è uscito per l’etichetta italiana Nicotine Records mentre “Das Volk der Freiheit” è stato pubblicato dalla russa Endless Winter. Come mai la scelta di una label russa? Com’è nata la collaborazione?
Alessandro: Al nostro amico Alberto Bia, proprietario della Nicotine, dobbiamo tantissimo per il sostegno che ci ha sempre fornito, oltre che per la volontà di coinvolgere alcuni di noi in suoi importanti progetti come è stata la realizzazione di “The Bible of the Devil”, una monumentale enciclopedia sull’Hard Rock degli anni ‘70 edita nel 2015. Ebbene, quando Alberto ha deciso di sospendere l’attività della Nicotine, abbiamo iniziato a darci un’occhiata attorno per capire se ci fosse stato qualcuno disposto a pubblicare “Das Volk der Freiheit”. A questo punto ci è parso naturale chiedere un consiglio ad Aleksey Evdokimov, fervidissimo giornalista di San Pietroburgo che in questi ultimi anni ha scandagliato il Doom Metal anche nelle più recondite nicchie underground fino ad arrivare ai Premarone che, con immenso privilegio per noi, ha inserito nel suo “Doom Metal Lexicanum”, uno straordinario libro sul Doom da poco pubblicato con riconoscimenti internazionali. Aleksey è una persona molto disponibile ed è stato lui a suggerirci di rivolgerci alla russa Endless Winter, etichetta prolifica soprattutto in ambito Funeral Doom/Death Doom che sapevamo aver messo sotto contratto un notevole gruppo italiano come i Bretus. Siamo così entrati in contatto con Gennady Semykin, proprietario della label, il quale ci ha subito risposto con la proposta della pubblicazione del disco. Siamo davvero contenti di avere iniziato questa collaborazione con la Endless Winter e Gennady, che ci ha trattato molto bene, dimostrandosi un professionista serio e affidabile. Peraltro devo dire che questa è stata anche un’occasione per scoprire parecchie band interessanti che prima non conoscevo affatto e che ora apprezzo molto, come ad esempio Nordlumo e Morphugoria, provenienti dalla Russia: da tempo c’è una grande scena musicale in crescita in quell’immenso Paese che varrà la pena di tenere d’occhio! Insomma, siamo proprio soddisfatti e speriamo che il rapporto con l’etichetta prosegua anche in futuro.
E adesso? Quali i progetti futuri dei Premarone? Farete della date di supporto a “Das Volk der Freiheit”?
Michele: Ovviamente siamo felici quando abbiamo l’occasione di far conoscere la nostra musica attraverso l’attività live. Abbiamo già suonato dal vivo il nuovo disco, anche prima che fosse pubblicato, e ora stiamo organizzando nuove date. Per quanto riguarda invece l’attività in studio, da tempo ci stiamo dedicando al nuovo album, che si intitolerà “Inverno”. Sarà un lavoro oscuro e dilatato come al solito, ma forse più diretto, compatto e pesante dei dischi precedenti, anche se allo stesso tempo dotato di sviluppi di chiara matrice settantiana. Per il momento ci piace molto e, a nostro parere, sembra promettere bene.
Ragazzi, siamo arrivati alla fine, ringraziandovi per quest’intervista, come di consueto, lascio a voi le ultime parole per salutare i lettori.
Siamo noi a ringraziare te per questa graditissima opportunità e ovviamente un grazie va anche a tutti i lettori che hanno avuto la curiosità e la pazienza di leggere questa intervista. Il futuro non potrà che riservarci tempi bui, ma dischi luminosi.
TrueMetal.it March 2018
Francesco Scarci — Decemberance “The Demo Years (1998-2001)”
Considerate subito una cosa: avevo definito l'ultimo album della band ellenica una prova di sopravvivenza, cosa aspettarsi dunque da un lavoro che recupera i primi due demo della band, datati 1998 e 2001, che propongono una registrazione alquanto casalinga e che esordiscono con la marcia funebre? Francamente, io temerei il peggio. "Dying" è il primo pezzo, estratto dal demo d'esordio 'Decemberance', una song che mantiene per quasi tutta la sua durata, la melodia di fondo della marcia funebre appunto e su cui poggia il cantato sussurrato di Yiannis Fillipaios. Si va avanti con "When Darkness...", dieci minuti di suoni che lasciano intuire quello che il combo dell'Attica avrebbe concepito e migliorato nel corso degli anni, ossia un death doom robusto, sorretto da delle tastiere forse un po' troppo elementari, ma che mi hanno ricordato l'album d'esordio dei The Gathering, quelli estremi, non le derive pop rock dei giorni nostri. Comunque già s'intravedono quelle che saranno le peculiarità dell'act greco, con quei suoni violenti ed opprimenti, smorzati da un break acustico che scomoda pesanti paragoni con "Remember Tomorrow" degli Iron Maiden, mentre la voce del frontman è qui in versione growl, cosi come nella successiva title track, lenta ma venata di un alone orrorifico, con tanto di lamentosa voce femminile in sottofondo. A chiudere la prima parte del cd ci pensa la strumentale ed acustica "Sorrow". Vado ad affrontare il demo 'Just a Blackclad...' e prima cosa che posso notare è una registrazione leggermente più pulita ed un approccio musicale forse più feroce ma al contempo più votato alle tenebre, con accenni agli Anathema di 'Serenades' che si fanno più importanti. Il disco è un bel macigno da assorbire, non ne avevo dubbi; meno male che torna un break semi-acustico dal sapore barocco ad allentare una tensione che, si stava facendo via via sempre più pesante da tollerare. Certo l'incedere del disco è mastodontico ed ecco che mi sovviene un altro paragone col passato, quello con l'EP 'Preach Eternal Gospels' degli olandesi Phlebotomized. Ascoltare per credere ed apprezzare la monumentalità di ritmiche iper-distorte, che viaggiano in profondità, la cui pachidermia viene alleggerita dal suono di archi. "Numquam" è un Everest di 21 minuti da scalare tutti d'un fiato, e chi si ferma è decisamente perduto. E allora via ad affrontare l'ennesima inerpicata tra sonorità a rallentatore, delicati arpeggi di violino, gorgheggi d'oltretomba, sprazzi atmosferici, raffinati squarci acustici che evidenziano già un certo talento nelle corde di un ensemble che non vuole comunque rinunciare nemmeno alle classiche galoppate brutal death. Devastato, giungo all'ultima "...Of Decay and Sadness", in cui è il suono del flauto ad aprire le danze, prima di lanciarsi in una serie di divagazioni acustiche con tanto di strumenti ad arco, che per oltre sette minuti deliziano i padiglioni auricolari con della musica classica, che precede l'ultima breve fuga death metal di quest'interminabile ma affascinante raccolta. Ora che ho compreso da dove i Decemberance siano nati, tutto mi è molto più chiaro.
70
The Pit of the Damned March 2018
Michele Giorgi — Premarone “Das Volk der Freiheit”
I Premarone rappresentano un’entità a dir poco peculiare nel panorama odierno, fautori di un suono che guarda dritto al passato per catapultarlo nel presente fino a unire pulsioni kraut-rock – con tanto di richiamo agli oscuri German Oak nell’utilizzo del tedesco nel titolo – a espansioni drone, il tutto al servizio di un concept album complesso e distante da ciò che solitamente si potrebbe far rientrare nella comune accezione di doom, nonostante a questo linguaggio si finisca comunque per ascriverlo, fosse altro per affinità elettiva a livello di atmosfere e di pachidermico incedere del tutto. Das Volk Der Freiheit (traducibile in italiano come Il Popolo Delle Libertà) narra in due parti separate da interludio le vicende politiche del nostro Paese degli ultimi venticinque anni e i mutamenti socio-culturali che lo hanno attraversato, un quadro impietoso al cui interno non si fatica neanche troppo a scorgere un parallelismo tra ciò che è accaduto in Europa nella prima metà del Novecento e la nostra situazione attuale, rischi di svolte autoritarie/illiberali comprese. Anche la scelta di un approccio declamatorio all’interpretare i testi, a mo’ di voce narrante fuori campo, lascia l’impressione di assistere a un documentario, un’inchiesta che vuole mettere giù in maniera cruda quanto di più deleterio e auto-distruttivo l’Italia abbia saputo produrre dopo la fine della Prima Repubblica e l’inchiesta Mani Pulite. Il risultato finale è un lavoro complesso e al contempo affascinante, ricco di spunti “altri” e variazioni che ne rendono l’ascolto interessante e mai monotono, dal forte mood Seventies accentuato dall’uso di synth e theremin che donano un che di prog al tutto. Non un album facile, anche per il taglio particolare e la lunghezza delle due parti, eppure senza ombra di dubbio meritevole del tempo speso per entrare nei suoi meccanismi ed esplorarlo in ogni suo meandro, ascolto dopo ascolto. Per quanto mi riguarda, thumbs up.
The New Noise March 2018
Mattia — Bretus “...from the Twilight Zone”
Per chi ha fretta:
…from the Twilight Zone (2017), terzo album dei catanzaresi Bretus, è un lavoro più promettente del predecessore The Shadow over Innsmouth (2015). Da un lato, lo stile dei calabresi è sempre un doom classico con venature stoner che ricorda i Pentagram; anche le atmosfere sono sempre cupe, spaventose e ancor più vicine all’horror metal. Dall’altro però il gruppo è migliorato: rispetto al precedente, abbiamo un album con una registrazione migliore e un songwriting meno scontato e più vario. Peccato solo per la presenza di qualche cliché di troppo e per la mancanza di hit: per quanto la scaletta sia quasi tutta buona, solo la cadenzata In the Vault e la strumentale finale Lizard Woman spiccano davvero. Tuttavia, non sono grandi problemi: …from the Twilight Zone non sarà memorabile, ma è pienamente in grado di intrattenere qualsiasi fan del doom metal tradizionale.
La recensione completa:
“Divertente, ma non eccezionale”: è questo il riassunto all’osso della mia recensione di The Shadow over Innsmouth dei catanzaresi Bretus, pubblicata su queste pagine circa tre anni fa, nel febbraio del 2015. Ricordo che si trattava di un lavoro discreto, con qualche buona zampata ma in fondo non imprescindibile. Così, è stato con qualche dubbio che ho accettato di recensire il terzo lavoro dei calabresi, …from the Twilight Zone, uscito nel giugno dello scorso anno. Ma si sa che spesso i pregiudizi sono sbagliati, e anche in questo caso è stato così: mi sono accorto presto di trovarmi davanti a un album superiore e più maturo rispetto al predecessore, sotto molti punti di vista. Alcuni dettagli non sono cambiati: lo stile dei Bretus è sempre un doom molto classico con qualche venatura stoner che gli dà un tocco più sguaiato, per un risultato ancora vicino soprattutto ai Pentagram. Anche le atmosfere sono le stesse, cupe e orrorifiche, e stavolta ancora più vicine all’horror metal propriamente detto. Rispetto al precedente però …from the Twilight Zone riesce a incidere di più da questo punto di vista; in generale, i Bretus sembrano cresciuti nel tempo tra i due dischi. In primis, ora la registrazione è all’altezza della situazione: grezza ma non troppo, valorizza bene i riff doom dei calabresi. In più, stavolta il songwriting è più vario e meno scontato che in precedenza, il che rende la loro musica più efficace e fresca. Certo, i Bretus hanno una certa tendenza a cadere ancora in qualche cliché – un difetto che avevo notato già in The Shadow over Innsmouth. In più, …from the Twilight Zone pecca anche di una certa mancanza di hit: per quanto la media della scaletta sia buona, solo un paio di pezzi spiccano davvero. Ma in fondo sono due particolari che non lo castrano troppo: parliamo lo stesso di un lavoro molto buono, come leggerai nel corso della recensione.
Si parte da un lungo e dilatato intro, molto classico: all’inizio c’è solo la classica pioggia, il vento e una campana. Poi però entra in scena una chitarra pulita, seguita a breve dall’organo: duettano insieme con fraseggi mogi, profondi a livello emotivo. Sembra quasi che sia in arrivo un pezzo melodico quando invece Terror Behind the Mirror spazza via tutto ed entra nel vivo potente e cupa al massimo, con un riffage martellante aiutato bene dalla tastiera di Ghenes. È ciò che fa da base alla canzone, sia nei momenti strumentali più estroversi e potenti, sia in maniera leggermente più composta nelle strofe, dando un bello sfondo alla voce sguaiata di Zagarus. Si cambia verso solo per ritornelli più lenti, quasi strascicati e ancora di grandissima cupezza, nonostante le melodie molto classiche e non troppo aggressive. Il tutto è funzionale alla creazione di un’aura davvero orrorifica e maledetta, che si perpetua ovunque, anche nelle poche variazioni presenti – che di norma portano il pezzo su lidi più aperti, come la parte centrale, molto a là Black Sabbath. È il punto di forza di una traccia semplice ma incisiva, molto avvolgente lungo tutti i suoi sette minuti: come apertura, incide a dovere. Sin dal principio, la successiva In the Vault è meno oscura della precedente, ma conserva un tono arcigno. Lo si può ben sentire nel riff principale, lento e da puro doom tradizionale, reso anche più obliquo dai lead della chitarra di Ghenes che ci si posano sopra. È lo stesso che regge le strofe, seppur riletto in una versione molto più espansa e atmosferica; cambiano invece direzione i ritornelli, più esplosivi e anche con un certo coefficiente di rabbia dato dal frontman. Per la prima metà, la traccia si muove su queste coordinate, ma poi si spegne; i giochi però non sono ancora finiti. Comincia da qui un crescendo, all’inizio molto placido, con una chitarra pulita e una distorta che dialogano con arpeggi tranquilli, quasi con una certa nostalgia; è a quest’ultima che si rifà anche l’assolo che spunta in seguito, con vaghe suggestioni addirittura blues. Poi però il riffage principale torna a farsi strada: fa da base al riffage, ancora più potente e roccioso, con una lontana campana a renderlo più lugubre e il frontman a dargli ancora più atmosfera. È il momento migliore di un gran bel pezzo, uno dei migliori in assoluto di …from the Twilight Zone!
Con Old Dark House le coordinate non cambiano poi di molto: la base è lenta e cupa, doom tradizionale con ritmiche profonde alternate a momenti più dissonanti, che gli danno un tocco sinistro. Questa norma si alterna ogni tanto con stacchi più circolari e tesi, con un riffage battente che ricorda certe cose dei Doomraiser. Il tutto è carino, ma non incide troppo, né si stampa bene in mente come le tracce precedenti. Discorso diverso invece per la parte centrale: rallenta ancora, si fa dilatata e fangosa e ricorda così i Saint Vitus più espansi. Tutto ciò prosegue fino a spegnersi in una frazione espansa e cupa, prima di tornare alla sezione principale. Si tratta del momento migliore di una traccia piacevole e senza sbavatura né spigoli troppo grossi, ma nel complesso soltanto discreta: in quest’album si rivela insomma il punto più basso. Un campionamento, preso probabilmente da qualche film horror, poi Danza Macabra esordisce col suo riff principale, stavolta lento e ondeggiante. Questa impostazione torna ogni tanto, accompagnata da Zagarus che con la sua prestazione teatrale le dà una marcia in più in fatto di oscurità. Più spesso però il pezzo si muove su tonalità più tranquille: le lunghe strofe hanno come base una placida sezione ritmica su cui, oltre a un cantato sinistro ma più contenuto che altrove, sono presenti arpeggi di chitarra di tono malinconico. L’unico momento in cui il voltaggio sale davvero è invece la parte finale, che accelera e poi comincia ad alternare momenti più aggressivi e potenti e altri più d’atmosfera, che compensano la mancanza di potenza con l’oscurità. Nonostante la differenza col resto, è una sezione che funziona bene in un brano di alto livello, non tra i migliori di …from the Twilight Zone ma nemmeno troppo lontano! Giunge ora The Murder, che parte da un intro particolare: è cupo ma al tempo stesso classico, grazie molte suggestioni hard ‘n’ heavy. È una buona premessa per la sorpresa che i Bretus hanno preparato: quando entra nel vivo, il brano si presenta con strofe veloci e rockeggianti un mix di doom e heavy che ricorda i primi The Obsessed. Anche lo svolgimento riecheggia in parte della band americana: dopo aver corso un po’, la traccia rallenta, ma mantiene la sua anima heavy nei bridge, molto vorticanti. Ci si arresta relativamente solo per i chorus: se però una metà è crepuscolare e dilatata, l’altra è più compatta e potente, e riporta al resto del pezzo. Il brano alterna queste tre frazioni con poche variazioni lungo la prima parte; si cambia verso solo alla fine, quando d’improvviso la traccia si spegne in qualcosa di lentissimo ed etereo, con persino alcune suggestioni funeral. È una norma espansa, che avvolge molto bene grazie anche all’assolo di Ghenes, ancora molto anni settanta. Parliamo insomma di un dettaglio ben riuscito di un'altra buonissima traccia!
Un altro intro con un campionamento, poi The Creeping Flesh prende il via potente e cupa, con un fraseggio di chitarra ossessivo come base. È ciò che regge tutte le strofe, semplici ma molto coinvolgenti col loro incedere e la cupezza che la base evoca, ancora più accentuata dalla solita prestazione di Zagarus. Diversi sono invece i ritornelli: più rallentati, quasi calmi, suonano come se in questo frangente i Bretus avessero il freno a mano tirato – non in senso buono, ovviamente. Contando anche il fatto che i vocalizzi del frontman, sinistri e teatrali, stavolta non si uniscono bene alla base, abbiamo facilmente la parte meno riuscita del pezzo – ma c’è da dire che non lo rovinano troppo. La migliore è invece quella al centro: riprende alcuni elementi della norma principale ma li stravolge in qualcosa di cadenzato, lento, strisciante, arricchito da particolari ben riusciti come la prestazione del solido batterista Striges o l’usuale assolo di Ghenes. Valido si rivela anche il finale, in cui le due componenti principali si uniscono in qualcosa di selvaggio e potente, che stavolta funziona bene: è la conclusione appropriata di un pezzo che anche col suo difetto risulta molto buono. A questo punto, in …from the Twilight Zone c’è rimasto spazio per Lizard Woman, strumentale che è molto più di un semplice outro. Si parte da un inizio morbido, con solo la chitarra e il basso di Azog a disegnare fraseggi a tinte blues quasi sudista. È un genere che riecheggia anche quando il brano, con calma assoluta, comincia a progredire: inizialmente di metal c’è poco, abbiamo una traccia mogia e malinconica, hard rock lontano e atmosferico. Pian piano però questa base comincia a potenziarsi e a crescere, fino a raggiungere una base non aggressiva ma energica e doom a tutti gli effetti – nonostante l’organo e interventi di chitarra pulita riportino ancora al mondo rock. Tutto ciò va avanti per qualche minuto, prima di spegnersi, ma la canzone è appena a metà: dal vuoto presto riemerge qualcosa. All’inizio c’è solo il basso che disegna una melodia sinistra sotto a strani echi, ma poi gli altri strumenti la riprendono in maniera esplosiva. È una fiammata di gran potenza, che tra riff potenti e assoli sinistri brucia in poco, prima che la norma iniziale torni, anche più malinconica. È l’inizio della fine: la progressione ricomincia, ma stavolta è più eterea, con le tastiere spaziali in bella vista, prima che il tutto si spenga in una breve coda ambient con chitarra e synth, cosmica ma anche con una certa inquietudine. È un bel finale per una traccia splendida: parliamo addirittura del picco assoluto del disco che chiude!
Per concludere, pur senza la pretesa di innovare in qualsiasi modo o di essere un memorabile, …from the Twilight Zone svolge il suo compito alla grande. L’unica intenzione dei Bretus era di intrattenere, e ci sono riusciti molto bene: abbiamo quaranta minuti avvolgenti di puro doom metal, che scorrono veloci e incidono sia per la potenza dei riff che per l’oscurità delle atmosfere. Insomma, se sei un fan del genere qui c’è tutto quello che puoi volere: magari non sarà un capolavoro, ma di sicuro saprà farsi apprezzare!
78/100
HEAVY METAL HEAVEN March 2018
Pablo Custodio — Mirror Morionis “Our Bereavement Season”
Esto es sorprendente, he visto muchas listas de discos de doom metal del 2017, en sitios web muy especializados y en ninguno aparece este monumento a lo más melancólico que pueda encontrarse en las entrañas del doom metal. Por lo contrario, pareciera que la escena está agotada y dirige su atención a la experimentación y el stoner, siendo el nuevo disco de Pallbearer y el mono-track de Bell Witch el común denominador en todos los listados anuales del género. Mientras tanto, en Rusia la escena súper-undeground entrega joyas que se quedan ocultas. Así, debe ponerse atención a sellos disqueros rusos como Solitude Prods. y Endless Winter. Y precisamente patrocinados por Endless Winter, llega Mirror Morionis con Our Bereavement Season. Este disco no es sobre tocar ultra-pesado, ultra-lento, ultra-suicida, ultra-experimental, ultra-obscuro; Mirror Morionis simplemente hacen lo que se hacía en los 90s: crear melodías bien estructuradas, música melancólica, simplemente transmitir sentimientos, ¿no era ése el objetivo del doom metal? Es verdad que Mirror Morionis pertenece a un género en específico, el doom gótico, pero realmente lo ejecutan a la perfección, creo que la clave es la naturalidad, ésa que era común en los 90s. El disco doble está plagado de melodías inolvidables y montones de clímax emocionales. Tan sólo echen un oído a “When I Am Dead”, hacía rato que no oía tal perfección en una canción de doom metal, de la talla de gigantes como Teatre of Tragedy, Draconian, Chalice, Ashes You Leave y Nightsky Bequest. Sin duda alguna, Mirror Morionis es una banda que merece mucha más atención de la que ha recibido por parte de la escena actual del doom metal.
Caperuzo Dec. 2017
Pablo Custodio — Suffer In Paradise “Ephemere”
Una vez más los rusos lo han hecho. Pareciera que la fuerte crisis musical que ha infectado también al doom metal no ha penetrado la fría tundra rusa, pues ya van varios años que en mi lista de discos favoritos aparecen bandas rusas, brindando nada más que obscuridad y depresión a la decadente escena actual del doom metal. En esta ocasión, la banda rusa Suffer in Paradise nos presenta su segundo larga-duración titulado Ephemere. Se trata de un doom metal cuyo tiempo es lo suficientemente lento para alcanzar el estándar de la etiqueta funeral doom. Aunque no tuve la suerte de escuchar su primer material de estudio, puedo decirles que Ephemere no decepcionará a los seguidores de la música más lenta y depresiva del mundo: Suffer in Paradise no se enfoca en riffs ultra-pesados, sino más bien en crear una obscura atmósfera apoyada directamente por teclados, pero también por melodías y ocasionales guitarras acústicas. Además, la banda a veces incorpora riffs de black metal, brindando obscuridad extra. Sin embargo, una de las partes que más me agradó de este disco es la falta de monotonía, la cual es principal cáncer del género. Es verdad, Suffer in Paradise son muy lentos, pero hay suficiente variedad musical en el disco como para “disfrutar” esta marcha fúnebre.
Caperuzo Dec. 2017
Francesco Scarci — Premarone “Das Volk der Freiheit”
Inquietanti, da brivido, deliranti. Tornano i piemontesi Premarone con un secondo lavoro, 'Das Volk Der Freiheit', dalle forti tinte psichedeliche oltrechè psicotiche. Il quartetto di Alessandria, forte del nuovo deal con la russa Endless Winter, rilascia un mastodontico album di 60 minuti, coperti per buona parte, da sole due song. Si viene risucchiati immediatamente dal vortice lisergico dell'intro, che ci introduce alle cupe atmosfere di "Parte I - D.V.", un colosso di quasi 29 minuti di durata, in cui il doom claustrofobico dei nostri si fonde con lo psych, lasciando alle chitarre quel quid che evidenzia inevitabili reminiscenze stoner. Liquidare una traccia di mezz'ora in due sole righe sarebbe alquanto riduttivo, ecco perchè posso aggiungere che dopo sette minuti di suoni sfiancanti ed ipnotici, i quattro folli si lanciano in una serratissima ritmica black, che dopo qualche secondo, lascia posto a delle voci che richiamano la storia politica italiana. Questo perché il disco è in realtà un concept che propone una sorta di analisi personale dell'ultimo ventennio della storia politico-sociale dell'Italia: non sono solo le voci di politici (sempre all'insegna della par-condicio) quindi a palesarsi nel corso del flusso angoscioso di un brano, potente sia sotto il profilo musicale che vocale, ma anche pubblicità delle reti Mediaset con rievocazioni al Grande Fratello o ad altri programmi che arrivano dalle reti di Piersilvio. Dopodiché, spazio al delirio assoluto, tra kraut-rock teutonico, suoni progressivi che arrivano direttamente dai nostri anni '70, ma soprattutto tanta improvvisazione, il che significa originalità a profusione che non posso far altro che apprezzare. Certo, bisogna affacciarsi a questo disco con una mente assai aperta se non si vuole soccombere agli stralunati deliri musicali dei Premarone, che ci infilano nel loro poco confortevole shakeratore, buttandoci dentro ancora qualche elemento che scopriremo poco più in là, mentre le urla inviperite di Fra eccheggiano nel mio stereo, rievocandomi peraltro il cantato di una band storica del panorama italiano, i CCCP, quanto tempo. Stordito da brutali suoni schizofrenici, vecchie registrazioni vocali, rallentamenti abissali, synth che ci riportano ad un'altra epoca, mi accingo finalmente ad affrontare l'intermezzo ambient-drone di "Interludio - Interferenze", che con un titolo cosi non può far altro che alterare lo stato già di per sè alterato, del mio cervello. E allora, mentre scorrono suoni/rumori dal vago sapore casalingo, vi posso svelare la ragione del titolo in tedesco: 'Das Volk Der Freiheit' vuole infatti evocare lo spettro di un regime totalitario (andatevelo a tradurre su Google translator e capirete). Andiamo avanti con l'esplorazione degli ultimi venti minuti affidati a "Parte II - D.F.", una traccia la cui matrice ritmica ha forti sentori sludge/doom su cui si agitano poi le narrazioni di Fra, in una song apparentemente più stabile e lineare della precedente, ma che comunque ha ancora modo di sorprendere con i suoi (mal)umori, le sue nevrosi e gli abbattimenti, in una digressione musicale che sembra voler evidenziare quel decadimento imperante nel nostro amato paese. Alla fine, 'Das Volk Der Freiheit' è un signor album, sicuramente difficile da approcciare, ma che certamente sarà in grado di offrirvi un interessante spaccato dell'ormai deprimente società italica, dimostrando allo stesso tempo che almeno a livello musicale, l'Italia ha diritto di sedersi con i più potenti stati del mondo.
80
The Pit of the Damned March 2018
Pat 'Riot' Whitaker — SuuM “Buried Into The Grave”
Nothing says it better than “Doom For The Doomed”… and that is exactly what one gets with the seven-song debut from Italy’s SuuM, “Buried Into The Grave“.
It arrives March 10th with a CD format from Endless Winter and a Cassette version from Hellas Records. The factors needed to qualify an album as a valid manifestation of true Doom are all present here.
From the massive, down-tuned riffs of an Iommian nature, to the plodding, purposeful rhythm section, and of course sorrowful, yet emotionally powerful vocals. Yes, these are all abundantly prevalent and effectively rendered here with monstrous aplomb.
The journey gets underway after the brief rain-fallen intro of “Tower Of Oblivion“, a slowly churning number of haunting elements. With riffs that grind bones to so much dust, this behemoth lumbers its slow advance. Reverberating with resounding darkness, the repetitive whispers of the song’s title near the close adds to its overall eeriness.
Foreboding, dread, and fear are cast from each selection in fact. Songs such as “Black Mist“, “Seeds Of Decay“, and the epic “Shadows Haunt The Night” are, simply put, hellish. They are the musical equivalent of Death itself gripping you by your fast-failing heart, like a pace-quickening nightmare coming to pass, holding you firmly trapped within it.
The “Buried Into The Grave” title track is another fright-inducing highlight here, the guitar emitting a wall of sound heaviness, as the music sweeps outward. Shuddering wave after wave of rumbling, rhythmic pulses rattle your being as those guitars soon yield some fierce solos.
There is much to be experienced here and, although dark and consuming, the horrific nature of this music is ultimately quite enjoyable… and impressive. For those that have been subjected to the best that Doom has to offer, from Black Sabbath and Pentagram to Candlemass, Cathedral, and Solitude Aeturnus, you will find SuuM a most worthy new candidate for the historical annals.
Riff Relevant March 2018
Mario Andrés Rivas — SuuM “Buried Into The Grave”
Ha pasado mucho tiempo desde la última vez que escribimos sobre el actual doom italiano, un género con grandes bifurcaciones que al mismo tiempo nos ha regalado grandes sorpresas como Haunted, Messa o Bretus; pero que poco a poco se ha quedado relegado a lo que ocurre en el resto del mundo. Sin embargo, un día llegó al correo electrónico de Earthquaker una oscura propuesta con el sencillo nombre de Suum, por lo que nos dimos a la tarea de investigar al respecto.
A diferencia de las bandas arriba mencionadas, escuchar a Suum nos arrastra a los abismos más profundos para escuchar un doom más tradicional lleno de dolor, ruido y muerte. Los acordes lentos de las melodías aletargadas se arrastran como cuerpos a punto de fallecer, un estertor que habla sobre visiones más allá de la vida por medio de su última exhalación. Un tímpano se posa sobre la tumba olvidada para escuchar el lamento de almas perdidas, quizá el primer clamor de una banda que busca un espacio dentro de la memoria de lo que ya no será jamás.
Sin embargo, la historia de Suum es realmente breve. La banda nació en Roma a principios de 2017 con la intención de crear un grupo completamente arraigado en el doom metal más denso. Bajo esta premisa se unieron Rick en la batería, Marcas en el bajo, Mark Wolf en las vocales y Antonio Painkiller en la guitarra; cuatro entes obscuros que le dan voz a aquello que se encuentra más allá del umbral de la muerte y que espera pacientemente ha ser escuchado.
La fecha clave para el cuarteto italiano será el próximo 10 de marzo de 2018, día en que será publicado su álbum debut Buried into the grave, mismo que será editado en disco compacto por la disquera Endless Winter y en casette por Hella Records. Dicho material fue grabado en los estudios Devil's Mark y contendrá siete temas cubiertos por una densa niebla de melancolía lejos de cualquier piedad y ruido abismal lleno de lamentos de ultratumba y estruendos sosegados, quizá resignados ante su fatal destino.
Contrario a lo que pudiéramos esperar, Buried into the grave es un disco con variantes. Por un lado podemos escuchar temas con instrumentaciones tan pesadas como un muro cayendo sobre nosotros como en "Shadows haunt the night" así como melodías ahogadas en una atmósfera terrorífica idéntica a las viejas películas de Mario Bava, Lucio Fulci o Dario Argento que encontramos en "Black mist" y su halo obscuro del doom más clásico en manos de Saint Vitus. El criminal riff de "Last sacrifice" nos arrastra al recuerdo del Iommi más crudo, pero al pasar los segundos el tema va tomando consistencia propia hasta madurar en algo propio; aunque no es hasta la canción que le da nombra al disco cuando nos encontramos con un sendero hacia lo que podríamos llamar un estilo en construcción, una identidad en plena formación por medio de la fuerza de la instrumentación y la velocidad menguada por las cadenas ancladas en los tobillos como pesados grilletes.
Un trueno rompe el silencio en una noche tormentosa. A lo lejos se escucha el canto misterioso de un buho mientras las campanadas marcan la media noche. Un profundo bajo entonada una tétrica melodía por medio de su increíble distorsión, lúgubre canto que inmediatamente es seguido por la guitarra. Mientras la voz entona una lírica sobre frías almas entre cuevas de dolor y torres de olvido, el ambiente se torna más brumoso a cada segundo hasta convertir la dolorosa oda en una fatídica marcha fúnebre, un muro que se derrumba sobre nosotros para crear una pesada lápida que guardará nuestro putrefacto cuerpo... ésta es la inaugural "Tower of Oblivion", primer tema que se desprende como promoción para el Buried into the grave.
"El espíritu de vida flota dentro de la cueva de mentiras, entra por las puertas de la torre del olvido. Las sombras se reflejan gracias a los soles de la noche, entran en la caverna del dolor y por las puertas de la torre del olvido. En esta torre se quema la luna mientras que se desvanece en su exterior. Los sepultureros del mundo se unen. Sin vida, el mar de tumbas se transforman en portales de terror. Las almas frías son formas en la noche labradas en su interior..."
Si alguien dudaba de lo que puede hacer Italia si a doom se refiere, Suum es la respuesta exacta. Sin embargo, su álbum debut no será sencillo de digerir por los oídos sensibles o lejanos al gusto por la música aletargada y áspera instrumentación, por lo que requiere un mínimo de paciencia para permitirle ingresar al torrente sanguíneo hasta que surta efecto. Para aquello adoradores de la obscuridad y de los cantos surgidos del portal de la muerte, Buried into the grave se convertirá en un referente obligado de lo que es el doom en la actualidad gracias a su intento por refrescar las bases de un género por demás establecido...
EARTHQUAKER Feb. 2018
terraasymmetry — SuuM “Buried Into The Grave”
The legendary traditions of Italian doom metal are deeply ingrained into my brain thanks to innovative masters like Paul Chain, Black Hole and Ras Algethi yet while Suum’s sound is rooted in epic traditional doom metal they borrow from a large pool of Earth spanning influences. After just one year of hard work the band are ready to release their first full-length ‘Buried Into the Grave’ and it’s style rests comfortably between the Reverend Bizarre influenced sound of Pilgrim or Cardinal’s Folly and the claustrophobic grandeur of Scott Reagers-lead Saint Vitus. Suum’s sound isn’t solely reliant on lumbering, epic doom riffs, but also skin crawling guitar leads and some heavier almost death/doom guitar work. The lead guitar and solos are nasty licks of Satan’s fire against the ear that further deepen the tones of traditional doom metal influence.
The vocalist’s tone can easily shift between the despondent, unhinged vibrations of Scott Reagers on Saint Vitus‘ 1995 death, ‘Die Healing’ as well as he can conjure ‘Ancient Dreams’-era Candlemass in all if it’s grandeur. His performance is well on par with a lot of Finnish doom bands doing similar treatments to the style that Reverend Bizarre re-highlighted in the early 00’s. It wouldn’t be fair to point too closely to Finland, though because fellow Italian band Black Oath have been refining a similarly menacing doom metal sound for several albums. It never felt like Suum encountered an identity crisis on this debut, which shows an exceptionally well-formed musical personality for such a new group. Not since Crypt Sermon‘s debut have I come across such a confident debut from doomers I’d never heard of.
Many of the best moments on ‘Buried Into the Grave’ come from the guitar work. World dooming riffs on songs like “Buried into the Grave” often surge into guitar solos that match the intensity of the vocalist’s impressive and menacing performance. “Seeds of Decay” likewise tosses in some unexpected riffing that give the second half of the album an even darker tone, complete with Vitus-esque wah-pedal guitar work. Closing track “Shadows Haunt the Night” works itself up into a fury of wailing guitars and churning riffs, encapsulating the most intense moments of the album into one grand finale. I think because I love the key points of reference for Suum’s sound, I can’t help but geek out over their approach to doom metal. They’ve taken the slow and clever doom riffing of traditional doom metal and gilded it with fiery guitar solos and a vocalist with an impressive range of doom metal inflection at his disposal. Mandatory doom listening for 2018 especially if you like Finnish doom, Procession, and heavy metal inspired by the classics of Saint Vitus and Candlemass alike.
4.0/5.0
Grizzly Butts Feb. 2018
Marco Donè — Premarone “Das Volk der Freiheit”
Fuori dagli schemi, lontani da ogni moda, un universo a sé stante intriso di arte, sperimentazione e coscienza sociale. Forse è con queste parole che possiamo tentare di descrivere i Premarone, band originaria dalla provincia di Alessandria, che con “Das Volk Der Freiheit” realizza la propria seconda prova sulla lunga distanza. Un lavoro complicato, articolato, che pretende una visione open minded e richiede ripetuti ascolti per poter essere compreso. Una volta entrati nel regno dei Premarone, però, ci troviamo al cospetto di una formazione che, attraverso la propria musica, i propri testi, il proprio essere, cerca di lanciare un messaggio, nell’ambizioso tentativo di risvegliare consapevolezza e pensiero critico nell’ascoltatore.
“Das Volk Der Freiheit” è infatti un concept album che analizza gli ultimi venticinque anni della storia italiana, che parte da un titolo in tedesco per evocare la minaccia di un regime totalitario. Il lavoro si suddivide in quattro tracce: due strumentali, composte da un preludio, intitolato “Preludio: Mani pulite”, e un interludio, “Interludio: Interferenze”, e due grandi sezioni: “I Parte: D.V.”, della durata di quasi ventinove minuti, e “II Parte: D.F.”, della durata di venti minuti abbondati, che costituiscono lo scheletro del disco. Come già accaduto con il debutto “Obscuris Vera Involvens”, anche con “Das Volk Der Freiheit” i Premarone ci presentano un caleidoscopio in musica, in cui l’anima principale è caratterizzata dalla componente doom, integrata e ampliata da una spiccata venatura psichedelica, che, spesso, ci conduce verso lidi psych doom. Ma durante l’ascolto del disco incontreremo anche elementi settantiani, darkwave e ambient-drone ed è su questo particolare e personalissimo tappeto sonoro che si stagliano le linee vocali in italiano di Fra, che in questo secondo capitolo discografico sembrano come un’eco ovattata che arriva in lontananza, dando al tutto un retrogusto simil sludge. Dal punto di vista lirico i Nostri non perdono una virgola del loro spirito antagonista, inserendo registrazioni di tutti quei protagonisti, in negativo, che hanno portato al decadimento culturale che sta trionfando nel Bel Paese. Un decadimento ben rappresentato dall’affascinante copertina, dove, in uno scenario in bianco e nero, due occhi compaiono in un cielo plumbeo e osservano le rovine di una splendente civiltà del passato, in cui, alla base di una scalinata, si agitano delle figure simili a spettri, inconsistenti, che sembrano rappresentare esponenti della società contemporanea.
Anche in questo secondo album i Premarone puntano su una produzione dal forte sapore rétro, che ben si sposa al caleidoscopio musicale descritto in precedenza, donando una sorta di aura mistica e ipnotica alle composizioni. Se andiamo ad analizzare la prestazione dei singoli, va riconosciuto particolare merito al lavoro svolto da Pol al basso e da Mic ai synth e theremin, ma sia chiaro, è la band al completo a essere in palla. Anche se, come facilmente intuibile da quanto fin qui scritto, la prova dei Premarone non va valutata tanto in una concezione prettamente tecnica, quanto nel sapere e riuscire a trasporre in musica la propria visione artistica, e sotto questo punto di vista i Nostri centrano l’obiettivo.
Tutto questo è “Das Volk Der Freiheit”, un lavoro che continua e approfondisce quanto i Premarone avevano mostrato con il precedente “Obscuris Vera Involvens”, risultando ancora più complicato, articolato e ambizioso. Un album che forse screma ulteriormente la platea a cui la band di Alessandria potrà rivolgersi, ma che si rivela ispirato e vero, composto e realizzato con il cuore da una formazione dalla spiccata caratura artistica, il cui fine non è apparire per soddisfare un sentimento di pura vanagloria, ma cercare, attraverso l’arte, di realizzare un fine più elevato. Teniamoli d’occhio, potrebbero essere una delle sorprese dell’underground italiano. Avanti così.
75
TrueMetal.it Feb. 2018
Vlakorados — Graveyard of Souls “Mental Landscapes”
Quinto capitolo della discografia e terzo passaggio su Aristocrazia per i Graveyard Of Souls. Il duo spagnolo sembra avere tanto da dire, considerando che "Mental Landscapes" è il secondo album uscito nel 2017, dopo "Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado".
Il Doom-Death Metal con cui abbiamo conosciuto il gruppo si ripropone pressoché nella stessa maniera degli album già trattati su queste pagine; tuttavia, possiamo notare una piccola variazione che, in qualche modo, cambia ampiamente le carte in tavola: dopo essere passati dalla lingua inglese a quella spagnola, Angel e Raúl mettono da parte ogni forma di vocalità e optano per otto tracce interamente strumentali.
L'assenza del growl risulta una scelta assolutamente azzeccata: consente sia alle chitarre dai connotati melodici che alle tastiere dai suoni magici — le due vere colonne portanti del sound — di godere dello spazio che meritano; non dovendosi più contendere lo spazio con la voce, questi due elementi riescono finalmente a sfruttare al meglio le proprie potenzialità. Sono soprattutto le — ora più che mai — gradevolissime e onnipresenti melodie delle sei corde a trarne beneficio, anch'esse importanti nella creazione delle atmosfere incantate.
Questa è sostanzialmente l'unica variazione rispetto al lavoro precedente ed è bastato così poco per trasformare i Graveyard Of Souls da una realtà poco più che discreta in una indubbiamente interessante e capace di sfornare un disco non certo rivoluzionario, eppure incredibilmente piacevole all'ascolto. I due musicisti riescono a giostrare sapientemente le fasi ritmicamente concitate e quelle rilassate, senza mai eccedere in nessuno dei due sensi, prediligendo una via di mezzo; la capacità di variegare i brani e di impreziosirli con orpelli quali le chitarre acustiche di "Cloud Fields" e l'assolo di basso di "Eclipse" si rivela uno dei fattori di successo di un'opera che nei suoi quasi cinquanta minuti non ha alcun momento di debolezza.
Considerando l'immaginario che si forma nella mia testa durante l'ascolto, perfettamente rappresentato dalla misticità del comparto grafico, "Mental Landscapes" è un'ottima colonna sonora per viaggi verso altri piani astrali: per sua natura funziona decisamente bene come album da sottofondo ad altre attività; allo stesso tempo, l'ottima fattura delle melodie e, in generale, delle composizioni riesce a farsi apprezzare anche a un'analisi più attenta. Personalmente, devo dire di non essere un fanatico della musica strumentale, ma in un caso come questo non posso che apprezzare e riascoltare per l'ennesima volta il disco della band spagnola.
Aristocrazia Webzine Feb. 2018
Francesco Scarci — Aura Hiemis “Silentium Manium”
Ecco arrivare dal Cile l'ennesima one-man-band, capitanata da V., factotum di questi Aura Hiemis, in giro addirittura dal 2004 ma che per il sottoscritto rappresentano invece una novità, il che è strano considerato che all'attivo hanno ben quattro dischi, uno split ed un EP. Cercheremo di rifarci con l'ascolto di questo 'Silentium Manium', lavoro uscito a dicembre 2017 sotto l'egida della prolifica Endless Winter, ormai diventata sinonimo di funeral-death-doom. E Mr. V. (che ha peraltro un passato nei Mar de Grises che conosco invece assai bene), qui supportato da Lord Mashit, non tradisce le attese, forte di un lavoro dedito ad un inquietante e malinconico sound che con i dieci pezzi di questa release, riesce a trasmettere tutto il proprio pathos e dolore interiore, attraverso passaggi musicali lastricati di un profondo senso di pesantezza e disagio. Lo dimostrano i fatti: subito dopo l'intro strumentale di "Maeror Demens I" che insieme alle parti II, III, IV e V costituirà degli acustici bridge tra un pezzo e l'altro, sopraggiunge "Cadaver Fessum", esempio indefesso del monolitico sound proposto dai due musicisti di Santiago. Suoni a rallentatore, con riffoni inferti ogni cinque secondi e dilatati all'infinito, tastiere da incubo e vocalizzi da orco cattivo, raffigurano e certificano la proposta degli Aura Hiemis. Nulla è comunque lasciato al caso: il suono bombastico, gli arrangiamenti, l'ampio spazio affidato alla componente strumentale che dà enfasi alla drammaticità e al climax che s'instaura nel corso dell'ascolto di 'Silentium Manium'. Mi stupisce comunque l'originale approccio della band nel proporre la propria visione di doom: un esempio concreto è offerto da "Sub Luce Maligna", breve, quasi completamente acustica, sembra strizzare l'occhiolino ai primi Swallow the Sun. Analogamente fa "Between Silence Seas", e a questo punto deduco che sia il vero marchio di fabbrica degli Aura Hiemis per prendere le distanze dalla massa, che affida dei suoi quattro minuti spaccati di musica, la metà a suoni acustici e i rimanenti due alle sole chitarre, escludendo del tutto la componente vocale. Ma la cosa si ripete anche nella successiva "Frozen Memories", il che mi lascia ancora una volta perplesso perchè alla fine, "Cadaver Fessum" e la tremebonda ma atmosferica "Danse Macabre", sono gli unici episodi funeral doom del disco, in quanto il resto è un nostalgico flusso di suoni minimalisti, acustici e nostalgici. Ah, ultima segnalazione: il disco contiene dieci tracce, ma il lettore ne visualizza 11, questo perchè c'è la classica ghost track (quanto adoro ancora questi giochetti) che mostra un abito ancor diverso per i nostri, che partono da una ritmica quasi post black per poi affidarsi ad un suono più pulito e diretto che va a braccetto con l'utilizzo delle vocals, qui meno catacombali. Che stiano volgendo lo sguardo verso altri lidi? Lo scopriremo rimanendo sintonizzati sul canale degli Aura Hiemis.
75
The Pit of the Damned Feb 2018
Ian Morrissey — Aura Hiemis “Silentium Manium”
Fancy fusing some lovely Latin with erratic English! Just when I thought I'd found a Doom release from abroad that appeased my inner "grammar Nazi", I saw the song entitled 'Between Silence Seas' and sighed. I feel that Google Translate has a lot to answer for here.
I digress; let's dissect Aura Hiemis' album 'Silentium Manium', shall we? This band hails (no Metal band simply "comes from" a place nowadays) from Chile and 'Silentium Manium' is their fourth full-length release. I have to confess that, at the time of reviewing this album, I have not listened to their previous works. I'm not sure that there's enough on 'Silentium Manium' to make me want to delve, to be frank, but you never just know.
Aura Hiemis' style of Death/Doom is a little hard to pinpoint because they alternate rather frequently...and not always with Metal. Confused? Me too. The introduction to this album made me think that this would be more of a Novembers Doom type release because of the clean guitars and soft atmosphere but such thoughts were somewhat quashed by the arrival of the second track, which had some very powerful diSEMBOWELMENT-esque vibes (at least the slower parts), albeit with lesser vocals. Now, I'm really fighting the urge to give you a song-by-song breakdown of this album because it goes a little weird after that. What I mean is that the Doom elements of the album seem to disappear. Indeed, the Metal elements of the album mostly disappear too. I can only assume that vocalist V had a touch of laryngitis at this stage because there are no vocals for most of the middle of this release either.
Toward the end of the album, heavier Death/Doom returns and I find that quite enjoyable. If Aura Hiemis stuck to that side more throughout this composition then I'd be more appeased because musically, I find Aura Hiemis to be a fairly good band if I wear my Doomy hat of optimism. I think that the atmosphere generated on the Death/Doom tracks is powerful and that they do try to make their own music rather than simply copying other bands. However, they drift into different styles too much for my liking, and I also tend to find that the vocals aren't quite as good as they need to be for a more atmospheric Death/Doom release. I don't have enough experience in mastering to tell you for certain whether it's the mix or whether it's the vocalist himself but I often find myself getting distracted by guitarwork so I would lean toward it being the mix that is the problem. That problem pales in comparison to the bizarre removal of Death/Doom from the release, however. For large portions of this album, all you'll hear are guitars and there's not really a lot you can make of that. Subsequently, I'm left feeling a touch nonplussed after listening to this album several times, which isn't good.
As far as pet peeves go, I've got quite a few on this album. For example, the inlay is rather confusing. The CD I am listening to has eleven tracks on it but the inlay says that there's ten. Some sites don't recognise that there is an eleventh track, and some say it's called 'Visceral Laments II'. I don't know why that differential has confused the people that have made the album but it seemingly has, which is annoying. To pour fuel on the fire, there's roughly 60 seconds of dead air at the end of the tenth track, as if the album had ended - then the eleventh track kicks in. There's no ambience during that period; it's as if the band forgot to stop recording. That in itself made me question whether the eleventh track was even added on purpose. Your guess is as good as mine.
Furthermore, I don't understand the juxtaposition in the inlay. There's a pentagram, which is generally associated with being anti-Christian or pro-Satanism. Indeed, with "Demens" being the most common word on the inlay, you could easily put two and two together to get four. However, all of the lyrics on this release (which aren't listed in the inlay) are based upon the obscure poetry of Leonor Dinamarca in "Maeror Demens", which I'm led to believe loosely translates from Latin as "demented grief" so I don't see any real connection with what I tend to associate with anti-Christian or pro-Satanism lyrics.
Lastly, there's an unnecessary amount of testosterone with the closing message of the inlay, which states "Fuck off the rest! Let them burn!". Ironically, this statement alone is about as unpoetic as it gets so yes, I am baffled. I write poetry but I've never come across any radicals either for or against it so that level of aggression seems unnecessary. Still, at least Aura Hiemis have picked up a trick or two from their fellow South American legends Sarcofago. The Brazilians were somewhat infamous for their "If you are a false, don't entry" line and it's nice to see that Aura Hiemis have adopted a similar level of bewildering butchery of the English language with their inlay closing.
Would I recommend this release? Not really, predominantly because I don't know who I'd be recommending it to nor why I would be recommending it. I'd go as far as to say I would feel cheated if I had bought this release because there are only a handful of Death/Doom tracks on it; the rest sound as if they're just fooling around. I don't think I could argue with the idea of this being a different release to most Death/Doom albums out there but I would argue that's largely because there's a significant absence of Death/Doom on it. Again, musically it's pretty good (at least in terms of ideas and guitarwork) but there doesn't seem to be any direction on the release. At no stage of listening to this album did I feel that I understood whether I was at the start, halfway through it, or it had ended because there wasn't a structure. The mix doesn't sit too well with me and there aren't enough strong Doom elements on 'Silentium Manium' for me to suggest that any Death/Doom fans give this a whirl, although I must confess to being curious as to what other people make of it because I find it hard to imagine there would be many fans of it.
5,5/10
Doom-metal.com Feb 2018
Massimo Argo — Premarone “Das Volk der Freiheit”
Tornano nell’etere le pesanti e psichedeliche note dei Premarone, notevolissimo gruppo psych doom alessandrino.
A due anni dal bello e tenebroso Obscuris Vera Involvens, arriva un disco che lascerà spiazzate anche le menti più aperte, e potrebbe essere facilmente l’uscita dell’anno italiana nel campo della musica pesante e pensante. Das Volk Der Freiheit è la colonna sonora più adeguata alla crepuscolare fine che noi chiamiamo vita, alla nostra folle corsa verso una distopica dittatura dove noi saremo felici di essere tecno zombie. Questa opera è davvero un capolavoro di musica sociale, nel senso che riesce a cantare la nostra italianità attraverso i nostri difetti e le nostre quotidiane tragedie. L’Italia è un paese terribile, tanto bello quanto bastardo e corrotto, molle e sempre con dei soldi in mano insieme al cazzo che non si rizza nemmeno più. I Premarone ci portano in giro per la nostra psiche collettiva, ispirandosi ad un altro bellissimo viaggio lisergico del passato, il debutto della krautrock band German Oak, una comune hippie di cinque membri di Dusseldrorf, che registrò un disco eccezionale sulla Germania in un bunker. I Premarone partono da lì per spaziare tantissimo, usando la formula della jam, e ci regalano molta gioia e molta inquietudine. Das Volk Der Freiheit è un viaggio potentissimo che va affrontato senza paure, bisogna immergersi in questo lungo flusso di coscienza dove si può ritrovare il gusto del krautrock nell’esplorare senza timore, la forza del doom, il cantato in italiano con stile molto Cccp e Disciplinatha, per raccontare ciò che viviamo ogni giorno. La bellezza di questo lavoro è la sua totale e brutale sincerità, riuscendo ad arrivare dove è difficile spiegare, in quell’intrico di merda e sangue che è l’Italia. La produzione è curata assai bene, supporta benissimo la narrazione. Ci sono anche droni e momenti di stasi, anche perché questo disco ha una fisicità molto importante, è come viaggiare su un tappeto magico e ci sono cose sotto e sopra di te. I Premarone sono dei fantastici narratori, non perdono un colpo, dilatano e restringono il campo visivo del nostro terzo occhio a loro piacimento, spiegando in forma quasi subliminale concetti altresì difficilmente esplicabili. Un disco di psichedelia pesante fatto per farci pensare e per portarci lontano, sopra questo mare di dolorosa plastica tricolore.
8,5
Iyezine Feb 2018
The Disc — SuuM “Buried Into The Grave”
Italian doomsters, SuuM will release their debut album, Buried Into The Grave on March 10th 2018 with a CD version via Endless Winter & a tape version via Hellas Records!
The toiling of the bell, the twisted guitar riffs, the gothic vocals…SuuM deliver instant doomy gratification with Tower of Oblivion. It’s reminiscent of classic British doom band, Cathedral with a little early Sabbath thrown in.
SuuM are all about the deep & bothersome riffing thoughout as they are at the forefront of tracks like Black Mist & Last Sacrifice. With an occasional sharp solo thrown in to mix things up.
The flashes of malice that makes itself known on the likes of Buried into the Grave & Seeds of Decay come as a nice surprise too. SuuM deliver a real treat of darkened & deep doom here. One with a sense of purpose & structure.
Saying that they can also produce smart & emotive melody, the penultimate track, The Woods are Waiting is an eerie toned instrumental. A track that utilises the subtle sounds of a storm perfectly.
One final thundering & layered doom track finishes off a hugely eventful & satisfying album. SuuM combine much of the old-school with a natural & contemporary sound.
8,5/10
GBHBL Feb 2018
Vinterd — SuuM “Buried Into The Grave”
Traditional doom is something very akin to old school death metal in that there will always be such a desire for it that many new bands will constantly come out of the woodwork to keep its spirit strong and alive in modern times. But it comes with many acts who fall flat on their face without being able to properly recreate the classic sound and feel, but it also always comes with plenty of exceptions. Suum is one such exception that with their debut album shows they’re more than worthy of carrying the classic feel of doom metal forward alongside others.
What’s one of the most important parts of creating a solid, enjoyable doom metal experience that many people can listen to and go “fuck yeah”? A hell of a good crunch and a menagerie of riffs to go right alongside it! It’s the sort of thing that made traditional doom so fucking good in the first place, and it serves as a great basis for Suum’s debut that shows these Italians know exactly what they’re doing right out of the gates! From the very beginning, “Buried Into the Grave” shows that Suum isn’t fucking around as you’re immediately drawn into the realm that this group creates brilliantly in an effort to show that they know how to hail the classic style properly! Suum delivers a glorious punch filled with plenty of meat to back it up as “Buried Into the Grave” soaks you in a classic experience that several bands always try, but Suum somehow nails it on their first effort in such a way that shows these guys aren’t to be underestimated! It can take a band several albums to find their way and nail their craft, but Suum shows they can do it right off the bat! That’s a feat that shows throughout every track of this record from the intoxicating “Black Mist” to the attention-grabbing “The Woods Are Waiting”.
This style is one that I’ve always enjoyed thoroughly, but one that I don’t really see pulled off quite well by younger bands. Luckily, Suum shows the newer acts can pull it off quite well, and their debut is all the proof they could ever fucking need. “Buried Into the Grave” is a tantalizing record that shows these Italians have got talent, power, and promise all wrapped up in one sexy package the kind of shit that will draw in many more in by the time these guys put out new material.
Head-Banger Reviews Feb 2018
Duke "Selfish" Fog — SuuM “Buried Into The Grave”
Rituale di debutto per gli italiani SuuM, il gruppo nasce da costole di bands già note sul panorama doom metal nazionale come Fangtooth e Bretus e potremo dire che va a “saltare” a piè pari quell’itinerario fatto di gavetta, o indecisioni sul tipo di tiro o genere da adottare all’inizio di una data carriera. I Suum con Buried into the Grave dimostrano quindi di avere le idee molto chiare, sotto alcuni aspetti anche “sbrigative” se si pensa al genere di riferimento o alla lentezza pachidermica che lo contraddistingue in molte occasioni.
Le intenzioni dei SuuM sono quelle di soddisfare completamente il riverbero dell’impatto, del lato immediato della faccenda. Sicuramente andremo a trovare, ad avvertire le solite influenze imprescindibili, ma su Buried into the Grave troveremo una sorta d’unione di correnti ed elementi che potremo tagliare alla veloce in due fazioni: quella composta dal binomio Candlemass/Solitude Aeturnus e quella stabilita da un certo impatto/cadenza alla Cathedral/Reverend Bizarre.
L’opener Tower of Oblivion cala la sua pesante presenza/sensazione, nel farlo non omette un certo grado di spinta che si manterrà comunque efficace lungo tutto l’arco del full-lenght. Il sound “stampa” e si veste a ridosso di un riffing carico, profondo e penetrante, mentre il resto della scena andrà a favore del cantato oscuro, mistico e dannato di Mark Wolf. La sua prestazione riesce nel compito di conferire quel giusto tocco spettrale all’album, album che navigherà in tal modo su acque sicure e ben guidate dal timone di riferimento.
Un giusto grado di pesantezza ammorba Black Mist (le migliori saranno proprio le prime due a mia sensazione) e le successive title track, Last Sacrifice, Seeds of Decay e Shadows Haunt the Night. Le canzoni entrano in circolo avvolte da un drappo funzionale al “rapimento ritmico”, in tal modo scoveremo quelle capaci di accendersi da subito e altre che magari impiegheranno qualche giro in più a spiegarsi al meglio. Ma ciò che importa è il risultato finale e questo è privo di sbavature o di maldestre lungaggini (ci fermeremo in scioltezza al minuto 35), anche se il risultato finale non sarà magari di quelli incredibili o subito definibili come “indelebili”. C’è sicuramente l’impegno, ed è sufficiente tastare quel forte grado di insistenza che anima i SuuM nel voler continuare a suonare un genere di nicchia (e mai semplice da far rendere al top) come il classic doom metal.
64%
Disfactory Feb 2018
Duke "Selfish" Fog — Bretus “...from the Twilight Zone”
Forti emozioni occulte, suono piacevolmente scorrevole ma positivo nel suo essere “stantio” e tanta voglia di fare bene. I Bretus riversano tutta la loro passione per la causa e il sacro mondo doom metal per la terza volta su lunga distanza (questa volta sotto la russa Endless Winter), lo fanno al top per quanto concerne ombre e songwriting. Ebbene si, perché il nuovo …from the Twilight Zone (omaggio alla serie “Ai Confini della Realtà”) non funge solo da “esercizio nostalgico” come ogni buon prodotto di classic doom richiede già dall’etichetta, qui le cose verranno lavorate saggiamente e con la necessaria pazienza. In certi casi non otterremo la nostra “zuppa” pronta, ma sarà proprio questa l’arma definita di un disco che potrà giostrare le sue avvenenti caratteristiche solo con l’insistenza dei giusti ascolti.
Rapisce quel sound che tutto sembra voler sottolineare tranne che la potenza (o meglio, non fatevi ingannare da queste parole perché la presa non mancherà) scavando e lavorando nei meandri di territori perennemente ombrosi, settantiani e dal taglio ora progressivo, poi sconfinante a tratti nell’hard rock. I brani finiranno per diventare -nel loro speciale modo- piccoli dannati tormentoni iconici, non mi vengono altre parole pensando ad esempio all’attacco della grandiosa Terror Behind the Mirror giusto per ancorarci alla partenza di un album che offrirà diverse sfaccettature senza chiederci l’urgenza di “scomporci” più di tanto.
Serve nominare la triade Black Sabbath/Electric Wizard/Candlemass per rendere l’idea di cosa troverete all’interno di …from the Twilight Zone? Se riuscite ad immaginare un po’ di questo e un po’ di quello avrete colto il bersaglio ancor prima di iniziare e potrete cominciare a gioire senza remore. D’altronde questi quaranta minuti passano così in fretta da rappresentare un concreto sinonimo di costante intrattenimento.
Il riff portante di Terror Behind the Mirror è da antologia e lancia di fatto nel migliore dei modi il terzo full-lenght dei Bretus. Il cerimoniere Zagarus infiamma sgraziatamente ogni piccolo anfratto di ogni canzone scegliendo di volta in volta il mood necessario, giostrando così su più registri come solo un navigato capitano può fare. In the Vault accresce il fattore nefasto/oscuro scandendo lentamente il ritmo prima di lasciare spazio alla sinistra epicità di Old Dark House. Danza Macabra a metà disco funge da “nenia-rituale-ciondolante”, un gradino gradito prima di una aperta, “baldanzosa” e più leggera The Murder. L’album trova conclusione con due tracce azzeccate come The Creeping Flesh (che crescendo! la mia prediletta assieme alla opener) e la psichedelica-heavy-strumentale di Lizard Woman.
I Bretus sono una freccia non importante ma importantissima per il panorama doom metal nostrano, evitare di fare la loro conoscenza sarebbe davvero un piccolo insulto rivolto a noi stessi cultori del genere. Solo così, con quei piccoli accorgimenti, e via verso la cima di una faticosa scalata, perfezione e nobiltà possono essere raggiunte solo in questa maniera. Loro lo sanno bene, voi potrete dire lo stesso?
73%
Disfactory Jul 2017
Duke "Selfish" Fog — Ankhagram “Thoughts”
Dead e suoi Ankhagram sapevano di certo come sfondare le mie barriere critiche, ogni cosa che ho potuto ascoltare è finita ad entusiasmarmi senza riserve. Il fascino che esercita su di me questa entità russa non è per niente normale e proprio per questo motivo non devo essere seguito “elogio per elogio” alla lettera. Posso benissimo capire come un “timido” o poco propenso ascoltatore possa trovarsi in difficoltà con il mood funereo e soffocante che si respira su Thoughts, un lavoro sicuramente meno accessibile rispetto al suo predecessore (già recensito su questi lidi). Questa volta Dead ha incrementato la lunghezza dei brani finendo con l’ampliarne la forte sensazione di disagio, incrementata da testi brevi, semplici ed altamente depressivi.
Una volta superato il non facile scoglio della pazienza il percorso diventa in qualche modo “agibile”. La musica Ankhagram non è mai stata particolarmente tecnica o complicata nel suo svolgimento e così resta pure in questa circostanza. Seguire lo scorrere dei brani non sarà mai realmente difficile, ma diciamo che lo potrebbe diventare sulla distanza (a discapito della confidenza), ovvero quando si comprenderà di come le cose non cambieranno affatto avvolte nel loro “continuo ristagno”. Mi piace tantissimo l’unione fra chitarra e vocione, un marchio che continua ad entusiasmare in tutta la sua potenza evocativa. Non passa poi inosservata la componente elettronica che contribuisce nel raffreddare le sensazioni generali, aiutando ad uscire dalla più cupa negatività in maniera “solo apparentemente” più fluida. Dead fa tutto da solo, lo si percepisce per come la musica esce “macchinosa”, sotto certi aspetti intenzionalmente artificiale, questo aspetto alla fine sarà determinante nel definire il piacere di ascolto di Thoughts, ma non solo visto che si parla praticamente di una costante di casa Ankhagram.
Sono due strumentali ad aprire e chiudere l’opera, l’opener è inusualmente breve e stranamente “ariosa” mentre il finale rende vana ogni speranza grazie al suo lento svanire. In mezzo troviamo quattro perle oscure e di inaudita lentezza, Don’t Feel This Life è quella regina, mentre il momento “transitorio” (note di piano affiancate al rumore di un treno che scorre sui binari e conseguente attacco elettrico a seguire tanto per intenderci) di Lost In Reality è forse il momento migliore di tutto l’album (almeno per quanto mi riguarda). Dopo diversi ascolti sono poi arrivato alla conclusione che l’apparente primaria inferiorità di I’m A Fake e Withous Us è solo data dalla suggestione, perché entrambi i brani risultano alla fin fine egualmente validi.
Funeral doom-death consigliato, un’alternativa ai soliti nomi “di spicco”, una realtà alla quale bisogna saper dare piccole opportunità al momento giusto.
73%
Disfactory Feb 2016
Francesco Scarci — Shattered Sigh “Distances”
Dall'assolata Barcellona non poteva che giungere un album di solare... death doom. Si ringraziano pertanto i gentilissimi Shattered Sigh, qui al debutto, per regalarci il loro spaccato di suoni deprimenti provenienti dalla Catalogna. Sei tracce rilasciate per l'etichetta russa Endless Winter che per questo genere di sonorità, ha ormai affiancato la più che navigata Solitude Productions. Il disco si apre con le plumbee atmosfere di "Under Your Slavery" e le sue tastiere celestiali che, accanto ad un riffing corposo e pesantino e delle vocals catacombali, costituiscono l'architettura sonora degli Shattered Sigh. Per fortuna che si affiancano anche delle clean vocals che con una massiccia dose di keys, stemperano un animo che talvolta sembra propendere verso tendenze funeral. Le melodie sono comunque buone, seppur elementari e talvolta ridondanti, ma le qualità ci sono tutte e i margini di miglioramento direi notevoli. Per i nostalgici di 'Serenades' dei primissimi Anathema, date pure un ascolto a "Timeless", avrete da che versare lacrime nel ricordare quei vecchi tempi di decadenza ormai finiti nel dimenticatoio di molti, ma non del sottoscritto. E forse anche il sestetto catalano deve ricordare bene la lezione dei fratelli Cavanagh, visto che tra lugubri e funeree ambientazioni, votate ad un catartico sound di dolore e disperazione ("1214"), pezzi più "ariosi" e movimentati (leggasi l'omonima track "Shattered Sigh") o tracce dall'andamento più ritmato ("Alone"), alla fine gli Shattered Sigh sembrano proporre una rilettura piuttosto interessante degli Anathema di quei primi mitici anni '90. A chiudere ci pensa la drammatica "Thou Say Goodbye", song che rafforza il valore di questa release e che consente ai sei musicisti barcelonins di dire la loro nell'affollato mondo del death doom melodico.
75
The Pit of the Damned Feb 2018
Marcos Garcia — SuuM “Buried Into The Grave”
Cada subestilo de Metal acaba tendo outras muitas subdivisões. Esse fenômeno ocorre devido à criatividade de muitas bandas, que sempre preferem trazer algo de novo para fugir do ponto comum e serem vistos apenas como mais um nome em meio a tantos. E nesse momento, o Doom Metal anda bastante evidente, especialmente quando se mistura ao Stoner Rock. Mas existem puritanos que gostam de fazer algo mais voltado às raízes dos gêneros em que estão inseridos. E esse é o caso do quarteto italiano SUUM. Uma audição em “Buried Into the Grave” e entenderão minhas palavras.
A banda segue aquele som duro, cru e pesado, cheio de andamentos lentos que bandas como WITCHFINDER GENERAL, SAINT VITUS, TROUBLE, PENTAGRAM e THE OBSESSED, com timbres musicais bem abrasivos. As melodias não são muito complexas, o que permite a fácil assimilação do trabalho deles. Mas ao mesmo tempo, eles possuem coragem, pois ter identidade musical e com essa dose de energia é algo incomum nos dias de hoje, em que fazer Doom Metal sem misturas é algo difícil de ouvir por aí.
Sim, “Buried Into the Grave” é um disco muito bom.
Em termos de qualidade de som, “Buried Into the Grave” é realmente um disco azedo até a alma, mostrando aqueles timbres crus e abrasivos de seus antecessores, mas sempre tendo preocupação com o nível de clareza sonora, para se fazerem entender, e conseguiram um bom resultado. Tudo pode ser compreendido e assimilado sem grandes dificuldades. Até a arte do disco, bem simples, reflete aquele espírito soturno do Doom Metal.
Apesar de ser uma banda jovem (tem um pouco mais de um ano de formação), o quarteto mostra vocação para fazer Doom Metal. O jeito deles ainda mostra a necessidade de amadurecer um pouco mais, mas mesmo assim, já chegam com um disco de nível muito bom. As canções estão bem arranjadas, mostrando peso e boas melodias sempre, junto com arranjos bem pensados.
Espontâneo e denso, “Buried Into the Grave” tem sete canções muito boas. Mas o peso “sabbathico” dos riffs de “Tower of Oblivion” (até parece que o próprio Tony Iommi afinou essa guitarra), o “approach” opressivo que se ouve em “Black Mist” (baixo e bateria mostram uma solidez ímpar na base rítmica), o azedume intenso e cadenciado de “Buried Into the Grave” (os vocais ora melodiosos, ora mais agressivos em seus timbres normais, são muito bons e se destacam bastante nesta canção), e a lenta procissão fúnebre “Shadows Haunt the Night” (com seus arranjos espontâneos e toda aquela ambientação crua e soturna do estilo).
Apesar de novato, o SUUM tem muito a oferecer aos fãs de Doom Metal, sem sombra de dúvidas, e “Buried Into the Grave” vai agradar os fãs do gênero em cheio!
Ouça e sinta-se seduzido pela música do quarteto!
84%
Heavy Metal Thunder Feb 2018
Bruno Rocha — SuuM “Buried Into The Grave”
O que é que tem na água que os italianos bebem para que lá se produza tanta banda de Doom Metal com altíssima qualidade? Em qualquer vertente do Gênero Maldito, a Itália é dona de alguns dos melhores representantes. Em se tratando de Doom Metal clássico, aquele em que o Black Sabbath é injetado na veia sem dó nem piedade, uma nova banda do País da Bota surge e já se destaca: é o Suum, de Roma, a Cidade Eterna.
Fundada em 2017, o grupo lançou recentemente seu debut intitulado Buried Into The Grave através da gravadora russa Endless Winter, que também já lançou a banda brasileira de Death/Doom Aporya. Composto de sete faixas que totalizam confortáveis 35 minutos, o álbum brinda o ouvinte com aquele Doom Metal clássico e puro. Nada do odor fétido do Death Metal, nem de vocais cavernosos guturais e completamente despido de alguma beleza do Gótico. O Doom Metal do Suum é aquele ensinado pelo Black Sabbath, porém mais variado e dosado com o peso do Candlemass, sem trazer, todavia, o apelo épico da banda de Leif Edling. Bandas como Procession e Witchsorrow fazem esse tipo de Doom Metal hoje em dia, mas os italianos fazem a mesma coisa a sua maneira peculiar. Inclusive com alguma influência do Blues, que foi bem encaixada e aproveitada no Doom Metal do grupo. E é isso que mais agrada e chama a atenção em Buried Into The Grave.
O álbum se inicia com o baixo distorcido a puxar o riff de Tower Of Oblivion, que traz consigo guitarras em wah-wah e a bateria com uma levada arrastada (tente não se sentir enforcado com o riff que se inicia após o solo). Um ritmo um pouco mais rápido (dentro dos limites do Doom) puxa a faixa 02, Black Mist, que dá continuidade ao clima lúgubre de sua antecessora. Uma certa influência de Blues é o que destaca a faixa 03, a que dá nome ao disco. Ora, cabe lembrar que o Doom nasceu do Blues, tendo em vista que o Black Sabbath sempre transitava pelos dois estilos.
As três primeiras músicas têm algo em comum: todas trazem um segundo riff que surge após um solo ou uma ponte e que servem de ligação para a volta dos vocais de Mark Wolf. E esses riffs sempre trazem uma carga soturna mais forte que os riffs principais das músicas, de modo que cada composição fica variada e rica, com as qualidades do Doom sempre postas em evidência.
Last Sacrifice traz uma certa aura setentista em seu começo, antes de cair para um Doom sujo e mortal após sua metade. O ouvinte concentrado logo é transportado para uma caverna úmida e de pouca luminosidade. Estando lá dentro, os ouvidos do ouvinte testemunham mais um Blues/Doom que se inicia em Seeds Of Decay, a mais variada do álbum. Saindo do Blues negro, a música passeia pelo Doom imponente ensinado pelo Candlemass e depois vai para um empoeirado Stoner graças ao wah-wah da guitarra, que sempre entra em ação em momentos providenciais. O interlúdio instrumental The Woods Are Waiting é negro e ao mesmo tempo etéreo, como se você estivesse sentado à beira de uma fogueira, a noite, no Bosco Archiforo, uma das mais belas florestas italianas. O fim se inicia grandioso e imponente com a música Shadows Haunt The Night, pesadíssima e esfaceladora. Seu solo é o que mais se destaca em todo o álbum, antecedendo o pesaroso fim do mesmo.
Ao longo de toda a audição de Buried Into The Grave, os vocais de Mark Wolf se destacam pela interpretação sofrida e pelos ecos que dão a impressão de que a voz vem de um distante monastério nas montanhas. O guitarrista Painkiller não deveria se chamar assim; um pseudônimo mais apropriado seria Hand Of Doom, tamanha sua destreza em performar riffs cavernosos, solos emblemáticos e elaborar timbres pesadíssimos com seu arsenal de efeitos. Tudo que ele executa é seguro pelo forte alicerce criado pelo baixista Marcas e pelo baterista Rick. A mixagem favoreceu tanto os tons de sua bateria que em alguns momentos eles soterram os vocais, como na faixa dois, Black Mist. Afora isso, a forte sujeira na instrumentação reforça o peso e o lado negro das composições do Suum. O ótimo trabalho de estúdio foi assinado pela própria banda e registrado no Devil’s Mark Studios em Roma.
Roadie Metal Feb 2018
Francesco Scarci — Nordlumo “Embraced By Eternal Night”
Ho ricevuto le nuove release targate Endless Winter e per la scelta della prima recensione, ho preferito lasciarmi guidare dalla cover più suggestiva. I russi Nordlumo (in realtà una one-man-band guidata da Nordmad) hanno vinto alla grande con il loro nuovo 'Embraced by Eternal Night', grazie ad un'aurora boreale che avvolge un enigmatico tutt'uno formato da una chiesa incastonata in una montagna, strana combinazione. Il musicista siberiano, seguendo poi la politica tracciata dalla propria label, propone un cupissimo funeral doom che si esplica attraverso sei tracce, di cui l'ultima, "Weathered", è una riuscitissima quanto nostalgica cover dei finlandesi Colosseum. Il disco parte alla grande con la lunga "The Autum Fall", oltre otto minuti di suoni decadenti, dove la voce del mastermind di Severomorsk, non si palesa mai, lasciando invece largo spazio a melodie oscure. Per godere dei vocalizzi in growl del bravo factotum russo, basta giungere alla seconda traccia, dove il funeral s'incastra meravigliosamente con passaggi sognanti, a tratti ambient, corredati dai vocalizzi imperiosi del frontman, srotolati in oltre 23 minuti di musica che incorporano un profondo struggimento, segno di un forte disagio interiore, risultando alla fine assai spettacolare. La traccia è infatti cosi varia nella sua progressione, tra cambi di tempo, accelerazioni, squarci melodici e angoscianti rallentamenti abissali, che alla fine delineano per sommi capi la proposta musicale di Nordmad, peraltro encomiabile anche a livello strumentale. "Scripts" ha un ritmo più baldanzoso, per quanto questo aggettivo essere applicabile possa in un ambito cosi funereo. Comunque, la song è più ritmata forse in apparenza meno varia (non fosse altro per un catacombale pianoforte che irrompe a metà brano), mentre le vocals si dilettano tra un profondo grugnito animalesco, qualche urlaccio ed un tenebroso sussurrato. Il dolore alberga incontrastato anche in "Dreamwalker", un'altra maratona di quasi un quarto d'ora di lugubri atmosfere, ottime melodie a rallentatore evocanti un ipotetico mix tra Ea e Saturnus, dove fanno capolino anche delle clean vocals. A chiudere (ma ci sarà ancora tempo di gustare la spettralità della già menzionata cover dei Colosseum) ci pensano le celestiali atmosfere di "Millenium Snowfall" che confermano la bravura e la vena creativa del bravo Nordmad.
80
The Pit of the Damned Feb 2018
Mourning — Aporya “Dead Men Do Not Suffer”
Gli Aporya sono una bella sorpresa dal Sudamerica, sorta nel 2016 e immediatamente attiva per dare vita al debutto "Dead Men Do Not Suffer" nell'anno seguente, un album che mi ha affascinato da subito.
L'ingresso inondato di grigiore malinconico affidato alle tenui e dolenti note della strumentale "Blood Rain" è solo una illusione, dal momento che poi mi sono ritrovato a sbattere il muso contro un brano spiazzante quale "Cry Of The Butterfly", che non possiede praticamente nulla di doom. Al contrario sfodera coordinate sonore prettamente death metal.
Dopo questo strano incontro, mi sono chiesto se la dicitura «melodic doom-death» affibbiata ai Brasiliani fosse davvero corretta. La risposta mi è giunta in maniera naturale con il prosieguo dell'ascolto, attraverso episodi dotati di una componente chitarristica sempre e volutamente impregnata di sonorità raffinate, quasi sacrali in certe occasioni, di stampo classico ed heavy, a infondere un tocco melodico agrodolce. Le tastiere dal canto loro sono soffuse e mai importune, mentre la prestazione vocale del cantante Tiago Monteiro alterna con gusto un growl strozzato talvolta urlato, altre leggermente più profondo, a momenti appena accennati e parlato.
Mi sono così ritrovato a riprodurre più volte "The Sad Tragedy (I'm Crushed Down)", "One More Day" e "Pain And Loneliness", notando come il cambio di marcia e stile avvenuto con la terza traccia in scaletta abbia trasportato con sé un crescendo emotivo ininterrotto, sino alla degna conclusione delegata al pezzo che dà il titolo al lavoro.
Gli Aporya sono soltanto alla prima prova, ma "Dead Men Do Not Suffer" possiede quel che serve per farsi largo nella folta selva di uscite che di anno in anno il panorama doom metal ci propone. Anche in Brasile i colori meno vivi sono ormai attecchiti da tempo, si vedano Abske Fides, Helllight e Mythological Cold Towers, e in grado di consegnarci spesso dei buonissimi lavori. Band che promette decisamente bene.
Aristocrazia Webzine Feb. 2018
Mourning — Aura Hiemis “Silentium Manium”
I cileni Aura Hiemis si rifanno vivi su Aristocrazia, già graditi ospiti in occasione dell'uscita split insieme a Sculptor ed Ego Depth "Synthèse Collectif - The Dark Whormholes" (2011) e del terzo album "fiVe" (2013). Trascorsi quattro anni e poco più, abbiamo la possibilità di apprezzare i cambiamenti avvenuti nel progetto funeral doom di V. e l'involuzione-evoluzione sonora intrapresa, grazie al nuovo album "Silentium Manium".
Scelte cromatiche e figurative meno macabre, ma maggiormente desolanti, sono state intraprese per realizzare la copertina. Il libretto informativo risulta scarno e privo di testi, tuttavia due frasi sembrano poste come a voler chiarire all'ascoltatore quale sia la visione musicale, atmosferica e lirica del gruppo, che ha deciso di rendere alquanto semplice la sua proposta: all'interno troviamo «Souls Have Journeyed Through Your Veins, Begging For You To Save Me From Love»; sul retro invece «No Dreams = No Hope = No Fear!!!!!», insieme a vari ringraziamenti.
Gli Aura Hiemis sprofondano in un grigiore perenne e fitto, talvolta malinconicamente dolciastro e obliante, un grigiore a cui è gradito l'intervento in più circostanze della chitarra acustica e una catena di composizioni perlopiù — se non del tutto — prettamente strumentali e di natura quasi minimale (i ben cinque capitoli di "Maeror Demens" e la lunga "Frozen Memories"). La voce appare come un tratto poco invasivo ma molto evocativo, a esempio in pezzi di buona caratura quali sono "Cadaver Fessum", "Sub Luce Maligna" e il vibrante e addolorato "Danse Macabre".
Una volta arrivati in fondo, non abbiate fretta di togliere il disco dal lettore, dato che di lì a poco incapperete in "Visceral Laments II", una traccia nascosta registrata inizialmente per essere inclusa nel promo split con gli A Sad Bada. Noterete così ancora di più come l'opera di snellimento compositivo sia stata netta, accrescendo notevolmente l'importanza del versante sonoro di natura funeral rispetto a quello legato a scenari doom-death.
"Silentium Manium" è un buon disco, che porta nuova linfa vitale a una band in grado di comporre buona musica e ormai matura. Non credo che gli Aura Hiemis possano trovare particolari difficoltà nell'entrare a far parte degli ascolti di chi mastica funeral doom dalla mattina alla sera. Sapranno sicuramente ritagliarsi un posto, magari non in prima fila. Dategli la possibilità di farlo.
Aristocrazia Webzine Feb. 2018
Ivan Tibos — Nagaarum “D.I.M.”
Nagaarum is quite an active solo-project by Gábor Tóth, whom you might know from bands such as In Vacuo, GuilThee or Sunseth Sphere. This project started in 2008 as an Industrial / Ambient outfit, but Nagaarum permanently evolved. In the near future I will write and publish a review on Homo Maleficus, the 2017-album, but first I’ll write some words about 2016’s D.I.M.
D.I.M. was written, recorded, produced, mixed and mastered completely by sole member Gábor himself, and he took care of the artwork too. The album gets released on CD with an eight-page booklet via a Russian collaboration (Outer Line, GS Productions and Endless Winter), limited to 300 copies.
The album, which clocks forty minutes, starts off in a mostly devastating way: massive guitar riffs, intolerant drum salvos and devastating bass lines. Wow, what a skull-crushing start! And that heaviness is like a basic structure for the whole album, but I assure you: there is much more to experience. A first remarkable element, for instance, is the vocal appearance. I just mentioned the opening sequence of this album. Well, quite soon the vocals join the colossal outburst, and they are sort of dual: hoarse, shrieking screams at the one hand, and melodious clean voices at the other – both appearing in a symbiotic way. There is a lot of variation too, going for song structure, speed, atmosphere and the style being used – not the sound (see further). All those elements are related, of course, yet still it remarkable how easy it seems to add such differentiation, not only ‘in between’ the separated tracks, yet also ‘within’ each single composition. Fast eruptions interfere with psychedelic slow parts, being hypnotic, then again psychedelic or even psychotropic; melodious leads easily interchange with heavy riffs and even some chaotic excerpts; integer excerpts penetrate some violent and / or sinister chapters; psycho-cosmic aspects are naturally injected within pieces of Ambient-laden spheres; blackened eruptions easily follow or precede floating ambient soundwaves; and so on. It’s like a mélange of Post-Black, Doom Metal, Ambient, Progressive Rock, Dark Metal, Avant-Garde Folk, Psychedelica and so much more, mingling timeless elements with modernistic touches. For sure this stuff is experimental and quite heavy to digest.
Maybe less important, yet I want to mention it for it fits to the bizarre approach on D.I.M.: the song titles. These ones are the abbreviated and official Latin names for elements taken from the periodic table of Dmitry Mendeleev, like Rb (rubidium), Cl (chlorine), Hg (mercury) or H (hydrogen). The chemists amongst us might get aroused…
The sound quality is pretty powerful, with a well-balanced mixture in between the different instruments. At the same time it is enormously overpowering, and still every single player (read: instrument) has its role into the whole play. It makes the result, which surely is not that evident to get through, even more overwhelming, yet more acceptable too, I guess, for all ‘inferior’ details are not minimised towards ‘just supporting the lead parts’. It is clean, yet not of the clinically polished kind, and therefore a surplus on D.I.M.
This album, and this goes for most of the Nagaarum recordings, I guess, needs endurance and persuasion. But after some listens, the whole sonic picture shows its core, and then again not either – I mean that things get clearer each time you go through this record, but each time new elements will appear, confusing you, teasing you to continue. And hey, isn’t that a great experiment / experience? Indeed it is.
80/100
ConcreteWeb Jan. 2018
Stefano Cavanna — Aura Hiemis “Silentium Manium”
Silentium Manium si rivela decisamente un buon ascolto per chi apprezza tali sonorità, ed offre certezze sul fatto che V. sia un musicista di grande sensibilità compositiva.
V. è un musicista cileno che ha fatto parte anche degli ormai disciolti Mar De Grises, forse la maggiore band di sempre partorita in ambito doom dal paese sudamericano.
Aura Hiemis è il monicker del suo personale progetto che giunge, con Silentium Manium, al quarto full length: il genere assume sovente, qui, una forma più eterea ma nel contempo guitar oriented e ciò spinge l’album ad avere un’ampia porzione puramente strumentale.
L’approccio alla materia di V. e senz’altro più emotivo che tecnico, per cui il predominio dello strumento a sei corde è foriero di malinconici arpeggi acustici, così come di brani constraddistinti da dolenti linee melodiche di matrice solista.
Detto ciò, sono comunque i brani cantati ad assumere un ruolo chiave nell’economia dell’album in quanto sicuramente più efficaci ed più impattanti a livello emotivo: forse quello che manca un po’ è una certa continuità in tal senso, perché è indubbio che i brani strumentali, pur avendo una loro funzione all’interno dello sviluppo del lavoro, talvolta paiono spezzare la tensione che riescono a creare due gioielli come Sub Luce Maligna e soprattutto Danse Macabre, brano funeral di grande spessore.
Silentium Manium si rivela decisamente un buon ascolto per chi apprezza tali sonorità, ed offre certezze sul fatto che V. sia un musicista di grande sensibilità compositiva e, soprattutto, intento a seguire una propria strada che porta a quelle rovine immortalate in copertina, volte a simboleggiare l’impossibilità di ricostruire ciò che il tempo e l’abbandono hanno definitivamente sgretolato.
Da notare anche la presenza di quella che dovrebbe essere una ghost track, visto che nel libretto i brani dichiarati sono dieci, mentre dopo un prolungato silenzio parte un undicesima traccia, altro brano notevole nel quale V., mette in mostra un growl di notevole profondità oltre ad una naturale propensione alla creazione di linee chitarristiche davvero evocative.
Silentium Manium è senz’altro un gran bel disco, anche se un death doom melodico ed ispirato come quello offerto per lunghi tratti dagli Aura Hiemis verrebbe ulteriormente valorizzato se sviluppato su pochi brani di consistente durata piuttosto che distribuito su una decina di tracce, cinque delle quali, quelle intitolate Maeror Demens, sono frammenti strumentali pregevoli ma che, come detto, finiscono per spezzettare eccessivamente l’incedere del lavoro.
L’album resta comunque vivamente consigliato a chi ama il genere, a patto di approcciarlo con la giusta pazienza visto che, proprio per le suddette caratteristiche, l’assimilazione viene completata solo dopo diversi passaggi nel lettore.
7,8
Iyezine Jan. 2018
All — Graveyard of Souls “Mental Landscapes”
Uteklo skutečně málo vody a na stůl se mi dostalo další řadové album španělských doomers GRAVEYARD OF SOULS. „Pequeños fragmentos de tiempo congelado“, jenž vyšlo taktéž v letošním roce, se z mé strany nesetkalo s nikterak pozitivním přijetím a nutno podotknout, že ani od „Mental Landscapes“ jsem toho mnoho neočekával. I s přihlédnutím k tomu, že GRAVEYARD OF SOULS v posledních letech nahrávky doslova chrlí a kvalitu písní tak zbytečně rozmělňují napříč diskografií.
Naštěstí je však na cestě hudební doprovází i zkušenosti, které dotyční konečně zúročili na své suverénně nejlepší nahrávce. Množné číslo je ovšem v této souvislosti poněkud zavádějící, neboť celou nahrávku dal dohromady Angel Chicote, a to bez asistence vokalisty Raúla Weavera, původního vokalisty. Především díky této skutečnosti se Angel rozhodl pro čistě instrumentální vyjádření a světe div se, funguje to! „Mental Landscapes“ sice španělskému projektu rozhodně nevyklestí cestu mezi žánrovou smetánku, ale i tak by si ji řada fans mohla oblíbit.
Hudba GRAVEYARD OF SOULS s konečnou platností získala tolik potřebné fluidum a do značné míry se zde vydařila i sázka na řadu surových funeral doomových vsuvek, které jsou v opozici vůči chytlavým gothic-doomovým vyhrávkám. Je to možná paradoxní, ale to, co chybělo projektu na předchozích nahrávkách, to Angel nalezl pouze vlastním přičiněním na „Mental Landscapes“. Vlastně i díky absenci zpěvu byl hlavní protagonista nucen mnohem více „kouzlit s hudebními barvami“ a svým způsobem přivedl GRAVEYARD OF SOULS do poživatelného uměleckého stádia. Takto postavená kolekci „urazí“ opravdu málokoho…
R.U.M. zine Jan. 2018
All — Nordlumo “Embraced By Eternal Night”
Funeral doomová scéna Ruska i Finska nepřestává udivovat svými novými přírůstky, mnohdy úplně neznámými, leč kupodivu kvalitními. Ano, k vytvoření dokonale působivé nahrávky nepotřebují hudebníci kdovíjak brilantní hráčské umění, spíše jde o schopnost vytvořit uchvacující atmosféru a zvukově ji vyprecizovat tak, aby náročného posluchače dokázala obejmout.
Vězte, že přesně takový je i projekt NORDLUMO na debutové desce „ Embraced by Eternal Night“. Ponurý doom metal, jemuž vládne mocný murmur hlavního předáka Johnnyho Mavericka, se opírá především o hutné kytarové riffy a neobyčejně košaté orchestrace. Tím třetím dílem do mozaiky jsou tradičně zpomalené kytarové vyhrávky, jež odkazují na nejslavnější žánrové ikony. Velkým překvapením je ovšem i velmi solidní zvuk, který příjemnost nahrávky ještě více posiluje. Při vší striktnosti pak hlavní protagonista nezapomněl ani na trocha toho rozptýlení v podobě jemnějších přísad (vyšeptávání, recitace, rockové prvky), jako je tomu např. ve skladbě „Scripts“.
Oddanost žánru naopak reprezentuje předělávka „Weathered“ z dílny kultovních Finů COLOSSEUM, jejichž produkce není u nás zase tolik známá, ale v severských končinách je ceněna měrou vrchovatou. NORDLUMO jsou ovšem teprve na začátku cesty a je jen otázkou, jestli se jim bude dařit v delším časovém horizontu. „Embraced by Eternal Night“ je ovšem kolekce velmi příjemná a fanouškům funeral doom metalu jistě dobře poslouží. Pro uctívače EA či ABYSSKVLT je tato nahrávka jako stvořená. Zkuste, opravdu „fajné“, doporučuji…
R.U.M. zine Jan. 2018
All — Aura Hiemis “Silentium Manium”
Dalším reprezentantem funeral doommetalového odvětví je i chilský projekt AURA HIEMIS, zastoupený umělcem Herumorem V. Ten mimochodem působí i v celé řadě dalších metalových part, avšak AURA HIEMIS patří dlouhodobě k jeho prioritám.
Ostatně „Silentium Manium“ je už čtvrtým řadovým počinem, přičemž úplné začátky projektu sahají až do roku 2004. Kterak ale Herumorova hudba vypadala na úplném začátku, přiznám se, netuším. Nicméně aktuální tvorba je v rámci žánru poměrně interesantní, neboť v sobě absorbuje klasický funeral doom s prvky post-rocku. Nedochází k tomu ovšem prostřednictvím mixu, ale spíše rozparcelováním většiny kompozic. Ty se zpravidla rozjíždí právě způsobem křehkým a rockovým, aby v dalším čase hudba kulminovala v ryze brutální funeral doom s prvky death metalu. Extrémní vokál je pak pouhou třešničkou na dortu této pomyslné „klasiky“, jež je dále dotvářena silnou dávkou omamné hry kláves. Zapomenout ovšem nemohu ani na pětidílnou pokračovací ságu „Maeror Demens“, sérii krátkých instrumentálek, který byly hlavním předákem rovnoměrně rozházeny mezi jednotlivými kompozicemi.
Do koloritu pozitivních záležitosti lze ovšem zařadit rovněž zdařilé kytarové vyhrávky, byť jich tu není zdaleka tolik. Naopak hodně sterilně zní „rány“ bicího automatu, což je problém. Album je tímto neduhem opravdu notně zasaženo a je tedy zřejmé, že AURA HIEMIS patří spíše do druhé doomové ligy. A to je věru škoda, neboť většina skladeb nepůsobí vůbec zle, ba naopak. Sběratelé undergroundových nosičů si však mohou i toto dílo s čistým svědomím zařadit do svých sbírek.
R.U.M. zine Jan. 2018
Stefano Cavanna — Suffer In Paradise “Ephemere”
I Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.
Dopo il bellissimo esordio su lunga distanza This Dead Is World, risalente al 2016, che riprendeva in parte il materiale edito nel demo uscito all’inizio di questo decennio, i Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.
Come era prevedibile, anche per l’appartenenza ad un filone musicale nel quale non si è molto inclini a soverchie variazioni sul tema (e per chi lo ama questo è pregio e non difetto), il trio russo si stabilizza sulle coordinate del precedente lavoro, prendendo quali riferimenti maestri del genere quali Ea, Skepticism e Profetus e per restare in area ex sovietica, anche i mai abbastanza rimpianti Comatose Vigil.
Ephemere si rivela così un album di rara bellezza e profondità, con i ragazzi di Voronezh che si dimostrano in grado di imprimere ad ognuna delle sei lunghe tracce (più outro) quel dolente afflato melodico che eleva il funeral a forma d’arte musicale suprema: se la title track, posta in apertura, rappresenta l’ideale manifesto musicale dei Suffer In Paradise, è affidato alla successiva My Pillory il compito di scaraventare l’ascoltatore in quegli abissi di disperazione propedeutici ad una catartica risalita.
The Swan Song of Hope inizia portando con sé il marchio dei migliori Worship, con il valore aggiunto di arrangiamenti tastieristici che sono il tratto comune fondamentale dell’intero lavoro e che, nello specifico, rende questo brano qualcosa di una bellezza a tratti insostenibile; con The Wheels of Fate il sound si inasprisce nella parte finale mentre The Bone Garden e Call Me to the Dark Side riconducono il tutto ad un piano di funesta accettazione di un dolore che, seppur latente, è compagno fedele dell’esistenza di ciascuno.
Posso solo aggiungere che, a fini statistici, è un peccato che nel suo lungo peregrinare attraverso l’Europa il cd inviato dalla Endless Winter sia arrivato solo poco prima della fine dell’anno, perché Ephemere avrebbe meritato l’inserimento nella lista delle miglior uscite del 2017, con menzione quale opera di punta del settore funeral, ma in fondo chi se ne importa: quello che importa è l’aver ricevuto la conferma che i Suffer In Paradise hanno tutti i crismi per raccogliere l’eredità dei Comatose Vigil e degli Abstract Spirit (sperando sempre che entrambe le band si rifacciano vive, prima o poi), perpetuando la tradizione di recente consolidamento del funeral doom russo.
8,7
Iyezine Jan. 2018
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